giovedì 4 dicembre 2014

Appunti antropocentrici -4-

L'altro non è mai puro.
Per quanto inizialmente tu possa desiderare ardentemente che lo sia, magari anche evitando di mettere gli occhiali sì da vederlo in una nebulosa, o turandoti una delle due narici (ed il tutto in forza di una contorta forma di compassione e benevolenza verso te stessa, le tue patetiche illusioni, il tuo bisogno di fede), lui ben presto riuscirà a rendersi così evidente, o noioso, o ridicolo, o meschino, o ambiguo, da costringerti a prenderne onestamente atto.
La colpa, gravissima, che non puoi perdonargli, non è la sua oggettiva impurità -non esiste nulla di adamantino nella natura umana-, ma piuttosto la sua indifferenza sostanziale al tendervi, che altro non è che desiderio di miglioramento etico.
Non c'è bisogno di anelare, o precipitare, o innalzarsi ad improbabili traguardi di ascesi più o meno misticheggiante: basterebbe non insistere tanto sfacciatamente nella perpetuazione soddisfatta della propria miseria e pochezza morale abbarbicati a pretesti di fragilità e debolezza.
Ora, forse la capacità di tolleranza (e la conseguente deriva di innocuo buonismo) è inversamente proporzionale allo stato di sofferenza psico-fisica in cui una data persona si trova, ma certo chi versa in una situazione di stremo esistenzialistico, pericolosamente vicino al precipizio, non può più concedersi il lusso di sciupare le esigue energie nelle commedie e nelle pantomime di rapporti sociali insulsi e vuoti, conditi di penosa ipocrisia.
Preferiresti la volgarità del bischero che ti dice, senza mezzi termini: "... senti, Cosa, sto cercando di cavare qualche utilità o piacere da questo scambio, sennò chi me lo farebbe fare?...", al che, con speculare disinvoltura, tu gli potresti dire vaffanculo, ed è pace per tutti.
La sola scelta che rimane, quasi sempre, è farsi il vuoto intorno. E in quel vuoto fa molto freddo, freddo da morirne.

*
 

I mondi paralleli esistono, senz'ombra di dubbio.
Non capisco il perché di tanti sforzi epistemologici per suffragarne la verità.
Per quel che mi concerne, in questa realtà io sono morta, o al massimo in condizione di pre-morte, altrimenti non potrei spiegare né la sopravvenuta consistenza lapidea della mia interiorità, né l'assoluta attuale mancanza di desideri.
Forse l'impossibilità di adesione, alla lunga, trasforma in ombre.
Quel che non riesco ad indovinare sono gli eventuali motivi per cui sono ancora viva di là.
Né sempre mi è chiarissimo se io sia di qua o di là.
Ne consegue che l'angoscia umana, probabilmente, ha invincibile e straordinaria potenza trasversale, più forte di tempo e spazio, onde consentire il compimento della celeberrima dannazione eterna.
 
 
*
 
Avrei bisogno di neve, e silenzio, e di tundra desertica.
Sotto la neve -una montagna di neve-, sapere sepolte tutte le cupole, per sempre.
E' il solo modo per restaurare la grande bellezza.
 

 



 

lunedì 10 novembre 2014

Inquadratura.

Se c'è qualcosa che in tutta onestà non posso non riconoscere alla vita è la possibilità di meravigliare anche nelle condizioni più restrittive ed ostiche.
Ah sì, davvero, è dell'umano, connaturata ed automatica, la capacità di estrarre da impercettibili segni e dettagli microscopici ancora un altro motivo per attardarsi a respirare  anche nella più lucida delle disperazioni.

Succede che in mancanza  di verità oggettive, di sostanziali e corposi motivi, di possibilità progettuali, l'occulta parte di noi che ci abita misteriosamente e che dicono anima, s'ingegni nel tentare di fornirci un qualsiasi sollievo, scaldando un cuore fattosi freddo ed impietrito a suon di amarezza e dolori,  quasi come fosse esattamente quella la sua funzione: ricordarci d'amare.

Almeno così mi capita sempre più spesso, mentre mi trascino con spossatezza, fin dal primo mattino, nella mia alienazione generale, metropolitana ed esistenziale. Mi catturano così immagini banali, certo sfuggenti ai più nell'indifferenza di massima che ci rende, pur se invece umani, cose sterili ed ordinarie tra altre cose,  e quelle immagini mi riempiono il cuore di commozione, di malinconia e di tenerezza.
Come quella vecchietta che indossava pantaloni un po' ampi con la piega ben stirata ma leggermente più corti del dovuto -qualche centimetro-, talché  rimanevano visibili gli stivaletti che calzava, e gli stivaletti, sulla caviglia, risultavano decisamente troppi ampi per il suo smilzo piedino che pareva così naufragarci dentro.

Non so perché mai una cosa simile, apparentemente insignificante, mi muova alla voglia di piangere un pianto buono, pieno d'affetto, per qualcuno di cui non conosco assolutamente nulla e che non rivedrò, probabilmente, mai più.
So però che nella decadenza delle parole ormai svuotate di ogni verità, nell'ipocrisia generale dei rapporti che ho subito e subisco, il senso ed il bisogno di umanità, prepotenti e divoranti, in qualche modo devono manifestarsi, fosse pure per il tramite di un paio di scarpe larghe ai piedi di un umano sconosciuto.
 


mercoledì 22 ottobre 2014

Tipi -19 - Di un'amica trentennale e delle implicazioni psico/neuro/anti/pro/affettive autoestinguenti.

Non sei la sola, in definitiva, povera cara, a vivere quella miserrima condizione, ma sei la sola con cui io abbia disperso tanto tempo -decenni- ed energie nell'infingimento inconsapevole di un'amicizia.
Ciò non mitiga la mia colpa.
Siamo, perciò, due casi psicologici davvero emblematici, due clamorose contraddizioni, due scandalosi paradossi: tu ed io siamo due contrari che hanno contravvenuto clamorosamente alla legge  naturale che li vuole  tendenti alla reciproca ripugnanza ed alla distanza.
Naturalmente tu lo ignori: il tuo disturbo ti impedisce l'auto-valutazione e conoscere te stessa è, per te, operazione impossibile. Vivi nella convinzione inossidabile che il tuo modo d'essere sia legittimo e naturale e provi angosciata perplessità -con immediata sensazione di vertigine e confusione-, se qualcuno tenta di fornirti almeno il timido sospetto che non sia così.
L'anaffettività, in definitiva,  è un male grave e debilitante, sempre incurabile, sempre involontario, ed ora, tra l'altro, mi pare, in preoccupante propagazione universale.

(Io, che mi credevo tanto buona, confesso di non riuscire però a provarne compassione. Sono malvagia, ecco. Anaffettivi, statemi alla larga, ché vi detesto.
Ho scoperto di recente, inoltre, che non capisci assolutamente mai il senso completo di quel che ti dico o ti scrivo. E' imbarazzante e vano comunicare quel che ti pare il concetto più semplice ed ovvio del mondo per scoprire che il destinatario che dovrebbe conoscerti meglio del contenuto delle sue stesse tasche non ha capito una mazza, mai. Ho perso trent'anni di parole con soggetti decerebrati. ed emozionalmente anoressici.)

Ciascuna delle tue scelte, passate e presenti, la tua intera storia, che conosco a menadito, dal momento che noi ci siamo frequentate dai quattordici anni in poi, testimoniano con grande chiarezza la tua valutazione dell'altro -e  la tua sindrome narcisistica-: le persone hanno un'utilità, possiedono delle potenzialità -chi più, chi meno- la cui funzione esclusiva è servire le tue esigenze, anche se frivole. Tu sei un tipo pratico. Perfino i tuoi sogni hanno carattere pratico, perfino le emozioni epidermiche ti conducono ad argomentazioni ed acquisizioni pratiche.
Povera cara: tu senti solo quel che puoi toccare. Probabilmente l'attaccamento alle cose, di cui non riesci a liberarti in alcun modo nonostante ti siano inutili e d'impiccio, l'accumulo negli armadi e quella triste ed imbarazzante avarizia, ovviano a ben altro e tragico vuoto interiore.
Nell'ambito degli scambi morali l'azione di utilizzare le persone a proprio vantaggio ha in sé qualcosa di comunque nauseante, ma se neppure il fine possiede un minimo di nobiltà o quantomeno assenza di sordidezza, allora è decisamente ripugnante.
Invecchiando, hai perso anche il pudore di camuffare da qualcos'altro i tuoi scippi un po' squallidi, con il risultato che perfino io -così un tempo tollerante e pietosa e magnanima e dolce- sono stata costretta a registrarne l'evidenza.
Sono alfine guarita dal mio garantismo buonistico, controproducente, anche per te dannoso, inutile e un po' vile, e la sensazione che ne ho ricavato è di freschezza e pulizia.

Da tanto ho imparato la lezione che di malinconia non si muore: si vive a stento ma senza vergogna, e con una certa sinfonia d'Idee e tenerezza per la Vita dentro.

Purtroppo io ti amavo, perché io amo sempre.
Riesco ad amare immediatamente perfino lo sconosciuto che mi sorride ed il cane che mi scodinzola, figuriamoci allora chi mi apre il suo cuore, o mi sceglie per depositare le sue confidenze, od assistere alle sue lacrime, o semplicemente per starmi vicino.
Non c'è niente di più abietto, in assoluto, del devastare l'altrui innocenza.
Quindi siamo pari, entrambe salve: tu hai definitivamente spento il mio affetto amicale per te, ma non lo immagini, dato che conosci solo ciò che è tangibile, ed io ho la certezza che, se pur leggessi, non afferreresti il senso di nulla.
 
 
 

mercoledì 1 ottobre 2014

Anticamera

Invecchiando si giunge a detestare ogni concetto vanaglorioso e supponente di Uomo provando repulsione per la sua ridicola bramosia di potere, di sapere, d'avere; a provare compassione per le ideologie ormai svuotate di senso e respiro; a patire un senso di vergogna  per le cadute di stile concesse a sé stessi od accordate agli altri con cui ci si è relazionati.
Passiamo direttamente dall'idiozia dell'infanzia e dell'adolescenza alla malinconia della senilità, quando tutto è perduto.
Non ho conosciuto mai un umano sano e adulto, con idee chiare e perfettamente aderenti alla verità della sua anima: ho sempre incontrato, ed incontro ancora, soltanto cloni di qualcun altro e qualcos'altro, che non hanno nulla di davvero interessante da dirmi, oppure creature tremolanti e piagnucolose, alla perenne ricerca di una madre o del piacere, che poi è lo stesso.

"Le conosco quelle piccole frasi che hanno l'aria da niente e che, una volta accolte, sono capaci di appestarvi tutta una lingua. Niente è più reale del niente." (Samuel Beckett)

Detesto essere diventata ciò che sono: la saggezza è l'anticamera della morte.

Posto un'entropia di pensieri solo per convincermi d'essere comunque viva.

giovedì 14 agosto 2014

Come tutti sanno la vera ebetudine non sta nel commettere qualche errore di giudizio, perfino madornale, ma piuttosto nel perpetuarlo dopo averne presa coscienza.

Ho deciso pertanto di esercitare la mia porzione di integrità nei rapporti -o nell'assenza di rapporti- con i miei simili, togliendo di mezzo i penosi alibi loro accordati al fine di evitare la recisione di quei sottili fili che reggevano insulse reminiscenze romantiche  prive di logico contenuto o affetto autentico: alcune stupide ed immediate reazioni di rimando, di carattere sostanzialmente mimetico, mi dimostrano che è cosa giusta e saggia.
 
Stamattina, percorrendo il mio usuale tragitto sulla bicicletta per recarmi al lavoro, osservavo i gruppetti di persone in attesa ad ogni pensilina del tram: tutte, nessuna esclusa, nonostante diversità d'età, etnia, tipo, e probabilmente fine e personalità, si interfacciavano con un telefonino, più o meno avanzato: ho provato un'orribile sensazione di glaciazione imminente ed al contempo un certo sollievo per via della fine della pantomima della comunicazione liturgica del nulla che in genere gli appartenenti al consorzio sociale pensavano di doversi reciprocamente.
Più avanti, sul marciapiede, una signora molto anziana con i ricciolini azzurri,  così anziana da stare  ripiegata a novanta gradi in quella che un tempo era stata la sua stazione eretta, appoggiata al carrellino ausiliario per la deambulazione,  era intenta a digitare qualcosa, a sua volta, sul suo apparecchietto mobile, davvero piccino, e strizzava gli occhi dallo sforzo per individuare i tasti: la sensazione successiva a quella glaciale è stata di scollamento del tempo; una cosa alla Dalì...
 
Nulla è più difficile del considerare l'altro davvero esistente. O almeno esistente quanto me. Anche perché l'altro non si cura molto di convincermi d'essere qualcosa di originale, definito e senziente, con qualche volontà e forma precisi, ardenti di fuoco interiore.
A me paiono tutti amebe avanzate, che tragedia.
 
 
 

lunedì 4 agosto 2014

Attacco di panico -2-

L'ebbrezza della generalizzazione: immagino sia altamente liberatoria ed in qualche modo pacificatoria per il pensiero.
E' necessario che sia affiancata da una dose massiccia di banalità: dev'essere popolare, ma offerta in modo tale che il popolino ne favoleggi qualche significato profondissimo a lui stesso incomprensibile (il popolino è abbastanza consapevole della propria miseria intellettuale, ma la considera fisiologica perciò non mortificante, e così si auto assolve ), oppure, per i presuntuosi ed i borghesucci tronfi di supponenza e schifati dai miserabili -rispetto ai quali non dubitano d'essere migliori-, deve costituire sostrato comune di classe (ripugnante slang del pensiero).

La vita vera, intanto, è, in primo luogo, assolutamente criptica ed inintelligibile fin ad ogni suo legittimo possessore, e per quelli come me pure faticosissima e crudele, indescrivibilmente infame e nauseante perché costringe a relazioni sociali, atti e preoccupazioni che ripugnano all'essenza dell' anima, mentre il senso del pudore che deriva dalla contemporanea conoscenza e consapevolezza delle tante, strazianti situazioni delle altrui vite impone il silenzio.
Così una miscredente quale sono io vive come un santo, in attesa del martirio finale, senza la grazia della rivelazione.

Come milioni di altre coscienze -milioni di monadi sofferenti-, non posso essere conosciuta, svelata, liberata dall'oppressione di un dolore per chiunque altro imperscrutabile.
Ciò è orribile ma non sorprendente e sta alle origini di molti miti ancestrali: eravamo avvertiti.

La sola valvola di sfogo è un tragico muto risentimento, indirizzato non già ai molti nemici impalpabili e sconosciuti, Potere, Sistema, Religione, o ai generici difetti umani, ma bensì agli sparuti individui conosciuti con cui hai parlato, sorriso, pianto, stretto la mano, amato, un po' vissuto, scritto, letto, in qualche modo interagito con la mente o con la carne.
Loro non possono fingere di non sospettare almeno vagamente chi tu sia.
E' la loro latitanza nella tua vita che misura con feroce precisione la sterminata miseria del mondo.

sabato 12 luglio 2014

Tipi -18- di quelli un po' come me

Mentre scrivono il post si rammentano di ciò che pensano generalmente dei blogger: "Son quasi tutti appartenenti alla categoria dei frustrati velleitari."
La suddetta categoria, per inciso, può ulteriormente suddividersi in molte sottocategorie la cui menzione dettagliata risulterebbe oziosa, tant'è, ad esempio, che la prima sottovoce "gli sfigati", -la più ampia-, a sua volta si (sotto) sviluppa nei vari e numerosi bisbiglii: "repressi", "supponenti", "presuntuosi", "egocentrici", "perditempo", ecc. ecc.

I tipi 18, quindi, sono devastati intellettualmente dall'auto-critica, alcuni perché si sentono in diretta competizione con Dio -anche quando non credono che esista- ed anelano ad un'impossibile visione d'insieme che dia senso all'esistenza umana, altri perché impegnati in una sorta di crociata solitaria alla conquista della purezza d'intenti che par loro sola ed ultima roccaforte segreta possibile da opporre alle lordure ed alle miserie del mondo.
Ritengono, in questo modo, di usare un po' di riguardo alla loro anima.
Ciò rende loro oltremodo complicato il vivere, giacché si trovano nella disperata condizione di dover conciliare la natura tipica della specie, che è socievole, credulona ed istintivamente dialogica, con la loro puntigliosa determinazione a non immischiarsi nei meccanismi meschini e spesso squallidi della comunicazione.
Addivengono, dopo ormai prevedibili e cicliche sequenze di tentativi, ad approdi di silenzio, il quale se non reca grande sollievo,  rappresenta il minore dei mali.
I tipi 18 sono molto logici, ma sempre in modo eccentrico, talvolta oscenamente impietoso.
Soprattutto alle soglie della fase matura della loro vita, costoro approdano ad una cristallina intolleranza verso qualsiasi forma d'alibi intellettuale, etico, politico, sentimentale.

Non  sono intimamente sprezzanti o superbi con gli altri, ma ogni approccio o circostanza, nelle più varie occasioni, provoca puntualmente un ulteriore sgretolamento della sempre più esigua fiducia che essi intuiscono di poter ancora accordare.
Sono tipi un tempo idealisti, cui è risultato impossibile l'adeguamento alle normali disarmonie dei rapporti tra terrestri, che l'elasticità e la disinvoltura del linguaggio continuamente legittimano.




giovedì 5 giugno 2014

Tipi -17- di quelli che "preferirei di no"

Posto che il raccolto più abbondante dell'esistenza è costituito da disillusione e delusione e che nessuna delle due è evitabile all'umano, e data l'insaziabile e furiosa attitudine al sempiterno desiderio di rinnovato piacere,   rimane altresì sconfinata la gamma delle passioni che lo irretiscono, rendendolo al contempo paradossale e ridicolo ma anche saggio -di una saggezza tutta istintiva-, perché se esiste davvero un'azione encomiabile e degna di rispetto, nell'uomo moderno, questa sta tutta concentrata nella rara capacità di resistenza alla Noia suprema di cui l'esistenza, straziata e svilita di senso, suo malgrado, nella modernità stessa, rimane impregnata ed intossicata.

La premessa, naturalmente sottesa, è che la Vita annoia. Annoia a morte.

Io, però, non sono capace, non so tergiversare, non trovo alcun ristoro nel deserto: non ci provo più a raggiungere la palma di quell'oasi che pare delinearsi, dato che l'autoinganno mi è assolutamente impossibile e so trattarsi di miraggio. 
Sono incapace di appassionarmi, ormai, si ché dovrei dirmi, nonostante la durezza impietosa della mia situazione personale, lo sfinimento, lo scoramento, l'assenza assoluta anche del più prossimo futuro, una persona interiormente libera da qualsiasi desiderio-paccottiglia.
Infatti.
Io sono libera -me lo ripeto come un mantra- di mantenere inalterate,  incorrotte, innegoziabili ed inappagabili le mie vere intime aspirazioni.
Qualcuna ancora la ignoro io stessa, ma so invece, con matematica certezza, quello che non voglio, che non posso a nessun costo accettare, che non mi scomodo neppure un po' a mediare e limare con compromesso.
Altri, nel gioco della partecipazione, che identificano con la testimonianza tangibile d'esistere, cavano qualche soddisfazione. Ne resto interdetta.
La Religione, i Papi, i Filosofi, i Politici Corrotti, tutti i Sedicenti Artisti: quel loro un po' sudicio e tristo parlarsi addosso, quel nostro servile e tristo ascoltarli e poi dibatterne illudendoci di fare esercizio d'intelligenza.
E' penoso.
Preferisco di no, preferisco di no, preferisco di no
A che mi gioverebbe? Distrazione di un istante e poi, di nuovo, regale e maestosa, la Noia.

Vivere è uggioso, sempre; vivere di convenevoli per me è impossibile, per loro è languido.


   

martedì 6 maggio 2014

Attacco di panico -1-

Blaterare in un proprio blog è in sé e per sé deprimente; leggere quel che blaterano gli altri nei loro è deprimente; la politica in twitter è lassativa, deprime il colon: gli unici cinguettii che non mi disturbano sono quelli degli usignoli (non è sublime quello dell'usignolo di fiume?); le velleità impudiche di esercizio di sedicente intelligenza celata  nei social sono deprimenti, pietose, mortificanti, ma non tanto quanto la piaggeria di quei ruffiani che per non so quali misteriosi fini decidono di nutrire a dismisura la loro presunzione attraverso genuflessioni virtuali patetiche; l'incidentale visione estemporanea di qualsiasi talk.show televisivo mi causa attacchi di nausea violenta particolarmente se tenuti da donne di sinistra con tacchi a spillo, mise firmata  e volto surreale di plastica, incarnazioni dell'ossimoro di classe.
La virtualità è perfino più oscena della realtà.

venerdì 2 maggio 2014

Pazienza.

La pazienza: virtù dei forti. Banale, meravigliosa verità.

Per chi ha fretta di vivere, giacché troppo consapevole del dover morire, pazientare è senza dubbio azione di sovrumana forza.
Sulle prime, essendo bramosa di vita, io scivolo sempre sulla pozzanghera del buonismo: delego i giudizi al cuore, il cuore tende al bene (lo vagheggia, lo vuole), ed il piacere dell'illusione mi impone dì immaginare la bellezza (che invece non c'è) in un altro.
L'esperienza degli infiniti risvegli passati, però, rimane marchiata nella memoria.
E' la memoria che nutre la pazienza e  fomenta la conseguente forza.
 
Così, uno dopo l'altro, la gran parte degli individui che mi parevano amabili hanno modo di esprimere, presto o tardi, la loro vacuità (ché pure il vuoto ha parole) e l'infinita sequenza dei loro turpi caratteri, tutti assembrati sotto il gran cappello della presunzione e dell'egotismo.
 
Me ne compiaccio: sono quasi adulta.
 
 
 
 

domenica 27 aprile 2014

Appunti Antropocentrici -3-


 
 A me succede ciclicamente questo: è un gigantesco, mostruoso, soverchiante nodo metafisico e anche pure fisico che mi provoca una sorta di rigetto generale della maggioranza degli automatismi del vivere sociale e cosiddetto civile con conseguente paralisi. 
Le azioni che mi recavano letizia ed un surrogato di effimera serenità, allora,  come l'ascoltare musica, imbrattare tele, creare qualcosa con le mani, lasciarmi assorbire da un romanzo, perdono qualsiasi potere, non assolvono al loro compito, non mi guariscono.
Tutto confluisce in una grande cloaca di smarrimento e di indistinta e generalizzata inquietudine.
 
Ogni male è riconducibile agli uomini, perché un umano non può mai, in nessun caso, prescindere dall'esistenza degli altri, neppure se optasse per la scelta drastica dell'eremitaggio. L'eremita è forse più di chiunque altro consapevole del suo intrinseco e fatale contatto con i propri simili, pure se non li incontra e non li vede: lo è proprio perché tenta di estrometterli dal suo stesso ossessivo bisogno attraverso l'opzione della negazione e della fuga.
 
Io, vorrei, vorrei tanto ammirarli, amarli, o anche solo provarne interiore ed autentico rispetto.
Invece.
 
Ora li odio tutti, ché mi hanno, ognuno per la loro parte, costretta alla prudenza ed alla circospezione, inducendomi a deviare dalla mia natura.

Capisco, perfettamente, di soffrire di un disturbo vasto ed inguaribile e lo verifico ogni qualvolta disparati e spesso occasionali interlocutori manifestano stupore per le mie motivazioni: "Soffri per le contraddizioni cui ogni umano si piega, miserabilmente, nel tentativo di darsi equilibro e un po' di pace; soffri perché le loro parole sono vane ed effimere; soffri per l'egoismo e per la rincorsa al tornaconto; soffri perché tanti dei loro dolori sono illegittimi e ridicoli; soffri perché sai che non incontrerai mai in nessuno di loro una teoria di integrità che qualcun altro non debba scontare nell'indifferenza; soffri perché dialogano su argomenti imbecilli; soffri perché sono incapaci politici, incapaci padri, incapaci madri, incapaci figli, incapaci amici, incapaci amanti; soffri perché trovano divertenti occasioni di piccole mondanità che a te danno il vomito; soffri perché credono in Dio e non riesci a conciliarlo con  una loro supposta intelligenza; soffri perché desiderano partecipare comunque allo stesso consorzio umano che criticano svendendosi l'anima e traendo pure sollievo dalla palese illusione di appartenenza? Ma a te, A TE, infine, perché importa, che te ne può importare? Sei pazza."
 
 

mercoledì 9 aprile 2014

Non so spiegare efficacemente, in questo momento, quanto io mi senta, di fatto e volontariamente, estromessa dalla vita.
Lo sono con enorme dolore, con sopraffino piacere.
Da quella degli altri, dalla mia stessa.
Mi piacerebbe attribuirne la causa alla depressione, ma a me stessa non mento, tanto più che nulla mi fa maggior orrore delle menzogne.
Infatti, io depressa non sono: la questione è tutta oggettiva perché ho un'esistenza assurda, con ritmi da schiava imposti dall'obbligo della sopravvivenza, frequentazioni deludenti e miserabili, ed un cuore inaridito e freddo in cui il sangue delle ferite s'è rappreso in un labirinto di cumuli che lo rendono inespugnabile all'intero universo, e la vera questione di cui non mi capacito è perché mai mi risulti tanto ripugnante pensare che in fondo basterebbe, semplicemente ed in modo risolutivo, cessare.
Quest'ultimo è il vero desiderio, ma io so da tempo che i desideri sono effimeri, come qualsiasi altra cosa che riguardi gli umani. Diffido di essi, perfino dei miei.
 
"Dove non si può amare, bisogna passare oltre"
Ma basterà l'ultimo spicchio di vita per capire in che direzione avrei dovuto andare?
Comincio a guardare la luna senza provare più commozione, ed allora capisco che non serve agitarmi, che l'inconosciuta verità lavora occultamente da sé, e mi condurrà per mano, dolcemente e senza sforzo, là dove vogliono il mio cattivo sangue ed il mio destino.
 
 

venerdì 4 aprile 2014

Appunti antropocentrici - 2 - (del come ai cani riesca meglio amare)

Duca me lo ricordo bene: era un surrogato di bontà.
Buono a prescindere, buono per scelta, e pure buono per destino.
Anche dopo l'ictus che quasi l'uccise e che gli lasciò permanentemente il muso rivolto a sinistra, come se una corda all'interno del collo lo tirasse da quella parte, lui, imperturbabile, dispensava leccatine: bastava sussurrargli  paroline dolci all'orecchio, bastava trattarlo con gentilezza.
Con i cani va così: ti fiutano, deducono l'essenziale, e poi  credono in te in eterno.
Io, per questo,  li amo, ammiro la loro folle fiducia, e li invidio.

Agli uomini, infatti, non mi riesce più di attribuire alcuna fermezza, alcuna valenza certa, un solo riferimento non sdrucciolevole, una parola definitiva: quelle dette son smentite dai fatti e quelle taciute dai fatti son svelate ed hanno significati ed implicazioni sgradevolmente amari, quando non ripugnanti, comunque sempre velleitari.
E' un incubo non riuscire più a credere a nessuno: corrisponde ad una sorta di perdita violenta della verginità del sogno, e la conseguenza è lo smorzarsi del desiderio di esistere, perché esistere impone una certa dose di levità, una leggerezza impossibile da ottenere con un cuore impietrito che fa da zavorra, mentre in assenza totale della speranza - anche fievole -  di condivisione di una parte della propria anima con i propri simili, ci si sente estromessi finanche dalla specie.

Prendiamo il disagio, il dolore, fisici o psicologici, per esempio: ne conosco così tanti, quasi tutti, che lo rimuovono come pensiero molesto, decidendo che va bene così, che la vita è comunque bella - per definizione, quindi deve e può esserlo -, che il dolore è osceno e pure un pochino colpevolizzante e, conseguentemente,  non  vogliono contemplarlo come realtà intrinseca delle loro esistenze - semmai è evento accidentale - né men che meno lasciarsi intossicare da quello altrui.
Considerare seriamente il dolore altrui, quindi, è pornografico, disdicevole, indelicato: con grande magnanimità, stile ed eleganza si fanno discreti e pudichi sì che pare ti inviino questo messaggio, attraverso cento segnali minimi ed involontari: "non farmi sapere nulla, per carità, delle tue miserie e delle tue disgrazie: è vergognoso essere tristi nel mondo d'oggi, la pubblicità non lo contempla, i mulini son tutti bianchi d'abbondante farina e si stagliano su ameni prati pieni di papaveri e spighe che danzano con il venticello, la felicità è obbligatoria... abbiamo tante cose atte allo scopo, se mi racconti i tuoi mali mi crei imbarazzo, ché non so che dire e che fare... e poi m'intristisci, ed io non voglio diventare triste, non lo reggo, non ti reggo. Inoltre, a me pare anche che tu te la prenda per cose irrilevanti, affatto serie, marginali. "
Oppure partecipano, come s'usa adesso, a suon di virtuali estemporanei "mi piace". Se non è scandaloso l'ossimoro di farsi "piacere"  la sofferenza  per il tempo di un click, allora la stupidità umana è davvero sconfinata.

 


sabato 15 marzo 2014

Visto, per caso,  "All is lost", il film che racconta la drammatica esperienza di un naufrago nell'Oceano Indiano? La vittima si sveglia di soprassalto nel suo ragguardevole e ben equipaggiato yacht cullato dalle onde per scoprire che un container galleggiante alla deriva ha squarciato un fianco del suo natante. Comincia da lì un'odissea di coraggiosi espedienti di sopravvivenza ed eroico contrasto alla forza implacabile e decisamente indifferente della natura, ecc. ecc. ed in qualche modo va a finire...

Io sono una tipa che ha la similitudine sempre in erezione, così poi ho pensato immediatamente agli squarci che i vari container alla deriva hanno arrecato, volta dopo volta, nella mia vita ed anche a quelli addosso ai quali mi sono fiondata da me medesima per avventatezza,  stupidità, o fatale distrazione: molti, troppi.
Come il naufrago,  ho reagito sempre, in qualche modo, grazie all'adrenalina della disperazione e a una certa dose di (forse) presuntuosa autostima.
Non è solo l'istinto animale alla sopravvivenza che controlla le tempeste dell'esistenza e consente di superarle: bisogna amarne almeno qualche aspetto significativo particolare, bisogna sentirne almeno qualche altra sottile promessa di seduzione, credere che la bellezza possa rinnovarsi prima o poi, immaginare di potercisi immergere ancora, pensare che possa esistere un qualche altro oggetto degno d'amore, ritenersi ancora capaci di accoglierne.
Si deve avere un proprio progetto, abbastanza allettante, intimamente anelato, che possa avvolgere la nuda e cruda realtà oggettiva della vita umana in un alone taumaturgico e pietoso di nebbiolina consolatrice, che imbrogli l'umano cervello onirico e lo convinca che la sua vita non è l'accidente insensato e talvolta drammaticamente beffardo che invece è.

Ma oggi..., oggi davvero è arduo il compassionevole autoinganno. 

venerdì 21 febbraio 2014

Dubbi antropocentrici - 1 -

Perché tutti (tra i sufficientemente acculturati; i sensibili; gli idealisti malinconici; gli "intellettualmente onesti"; gli elitari della disperazione esistenzialistica non-radical-chic posto che  ce ne siano più di due di autentici  e che i restanti non siano soltanto velleitari) coloro che lamentano l'insensatezza della vita, l'orrore della solitudine, le atrocità degli uomini sugli uomini e sugli animali, la crudeltà cieca del caso, l'impossibilità d'essere almeno un po' felici, non contemplano mai,  tra le soluzioni possibili, l'investimento di sé stessi in un'amicizia?

Il dolore latente dell'essere  rende feroci, insensibili, egocentrici, nichilisti, ma anche, probabilmente, né amore né amicizia sono, nella loro concretizzazione, all'altezza dei concetti che li avevano in premessa ispirati.
Le nostre idee  sono simili a sontuose variopinte vele di legni galleggianti su mare ostinatamente piatto.
La capacità di Amicizia, che è amore senza brama di possesso, è chiaramente sovrumana.

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Pregevole signor Camus, io, invece, ho scoperto che anche nella più torrida estate permane in me un inverno invincibile, e giacché per mia natura non ho scorte adipose nell'anima efficaci nel proteggerla dalle ingiurie a questa mia ridicola ipersensibilità che accusa ogni colpo possibile dall'ipocrisia, dall'ingiustizia e dalla miseria morale - intemperie del vivere -,  ne soffro molto.
Lei ha spesso lasciato intendere che la rivolta etica del singolo rappresenta una sorta di sostrato su cui si può ergere il senso di appartenenza e fratellanza con altri a noi simili e pur se sconosciuti.
Beh, mi lasci dire che ormai propendo per non crederci quasi più. E' una meravigliosa idea romantica, in fondo, ma resta idea, resta romanticismo, più possibile nel momento storico in cui Lei ha agito.
Oggi siamo moralmente regrediti, nonostante paia un paradosso. Siamo totalmente spenti, deprivati di qualsiasi luce e fuoco interiori.
Ogni mio contatto, ogni esplorazione, ogni vicissitudine mi  dimostrano che il desiderio più pressante è, per chiunque, non già la comunione ideale,  la sottoscrizione di una speranza, il bisogno di bellezza e giustizia, ma bensì l'accorpamento in sé, ai fini dell'accumulo e dell'esercizio del potere - previo adeguamento o negazione delle altrui caratteristiche meno digeribili -, di quanto più possibile sia predabile dall'esterno,  altri compresi. Non c'è più,  per gli uomini e le donne "senza qualità" - vale a dire tutti coloro che sono costretti, per fatalità di nascita e censo a percorrere il sentiero un po' sudicio della normalità -, alcuna volontà effettiva, o capacità, di tradurre nella propria esistenza quotidiana virtù non mercificabili e di fatto spendibili
Fino a quando ciascuno di noi non avvertirà come dolore vivo nella carne la sofferenza gratuita e folle che l'intero sistema economico, e poi politico e civile - suoi frutti di partenogenesi -,  infliggono ad un altro umano (e perfino ai suoi affini, amici, complementi, esseri fragili, bambini, cani, gatti...) noi rimarremo esemplari della specie che scelgono consapevolmente di abortire l'essenza dell'umanità.
Ne deriva che il siamo è ancora impossibile?

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Succede spesso di scoprire che un sedicente filantropo  sia un miserabile narcisista,  un sedicente filosofo un egoista mitomane, un sedicente poeta un mediocre, un uomo un idiota.
Perché non me ne accorgo mai prima di subire il disgusto della rivelazione?

 
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sabato 8 febbraio 2014

Appunti antropocentrici -1-

Il prezzo della conoscenza, ossia del soddisfacimento dell'umana curiosità, è la disperazione, perché conoscere avvicina alla verità delle cose, ne scalfisce quella corazza di incrostazioni e sedimenti - fatta di piccole ipocrisie, omissioni, miopie intellettuali, ignavia, pietà per sé stessi - con cui esse si presentano ai più generici ed epidermici esami e vedere con qualche chiarezza le cose per ciò che più probabilmente, anche se approssimativamente, sono davvero - ossia con sguardo il più possibile spassionato -, nella maggioranza dei casi è onestamente risolutivo e letale.

D'altro canto, laggiù, nell'Eden, Dio li aveva avvertiti e chissà la goduria, poi, nel considerare la perfezione della sua trappola: creature pungolate irresistibilmente dalla meraviglia ed affascinate dalle scoperte, per loro stessa natura, loro malgrado anche a costo della dannazione.

Sono assolutamente convinta che la condizione umana sia, fra tutte le animali, la più paradossale: dotati di notevoli potenzialità intellettive, gli uomini le hanno storicamente utilizzate per costruirsi la gabbia di tollerabile infelicità che li autorizza a giustificare poi la mollezza con cui trascinano i loro rapporti più intimi e necessari, le loro espressioni sentimentali ed amicali, il nocciolo vero d'essere umano.
La speranza, per definizione, attiene a ciò che non ha e potrebbe non aver mai materia e realizzazione, è  consolatoria, aleatoria, sognante, il più delle volte assurda. Deve essere lasciata così, nel limbo dell'utopia, ché, se ciò non fosse, ci vorrebbe il durissimo lavoro di renderla progetto, di farla scopo, nonché di attrezzarsi per produrne un'altra, diversa, nuova, onde alimentare il ciclo ineludibile e dannato del desiderio.
Così i più tergiversano, e preferiscono parcellizzare la loro sedicente critica, sia essa concernente le cose private sia quelle pubbliche,  lasciando ampi aloni di inconoscibilità ed approssimazione, tamponati dall'eterno ricorso all'alibi dell'umana imperfezione, dell'umana limitatezza.
Quando di ciò si ha intuizione, ma si preferisce non tenerne conto, si è in sostanziale malafede.
 
Dirsi umani, d'altronde,  genera almeno una doppia accezione: per gli specisti motivo di vanto ed orgoglio giacché presuppone superiorità assoluta sui viventi  e tanto basta per non sottilizzare e cavillare troppo sugli espedienti e sulle modalità del vivere in generale -; per gli altri, invece, una certa comoda presunzione di fallibilità  attribuita sempre allo strapotere della nostra natura emozionale  che giustifica poi anche la propensione al viscidume, all'autoreferenzialità,  a quell'edonismo crapulone che ci fa voltare lo sguardo in un istante, azzerando senza rimpianti il pathos di quello appena  precedente con il quale avevamo intuito - indignati - lo sconcio di un'ingiustizia, o la partecipazione al dolore dell'altro; meno male, sì, che abbiamo memoria e concentrazione labili e molli.

Intanto, il tempo scorre, implacabilmente. Domani morremo. E' seccante, ma è certo.
Bisogna farci entrare tutto quanto - pure la consapevolezza estrema del nostro morire -  in ogni momento da vivi.
Nell'istante in cui lo si decide, in cui lo si percepisce senza tema di smentita, la vita trascolora, si fa nebbiosa, indistinta, deludente, lo spleen permea di noia il più ameno degli spettacoli, sovente si osserva la propria esistenza come spettatore tediato di una pantomima malriuscita o come l'escursionista d'alta via montana che prova ad evitare di calpestare, lungo il sentiero, le deiezioni degli armenti al pascolo: inutile, sono ovunque.
 
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Cerco, allora, una voce, uno scritto, un'armonia, l'espressione di un volto con guizzo inconsapevole d'intelligenza, di pienezza dell'essere, di adesione incondizionata, ma esclusiva, all'obbligo del respiro. Cerco e non trovo: qui non c'è , ogni volta mi illudo che ci sia, ma era il solito inganno della mente asservita ai miei stessi desideri.
La sola cosa che serve è fortissimamente amare, fortissimamente essere amati.
E' troppo, per i troppo-umani.

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domenica 26 gennaio 2014

Ti ricordi, Sandro.

A tredici anni, ricordo, la zia mi portava con sé, nel mese di luglio, a Jesolo Lido, per una quindicina di giorni. In cambio, mia madre e mio padre ospitavano per pranzo lo zio che rimaneva invece in città un po' con il pretesto di dover lavorare e un po' perché la villeggiatura da spiaggia, probabilmente, lo avrebbe annoiato a morte.

Per forse tre anni, quindi - ché poi 'sta consuetudine estiva ebbe termine -, io lì incontravo un ragazzo diciottenne, proveniente da una provincia del vicentino, in vacanza con la famiglia, che, secondo le mie ancora acerbe valutazioni di allora, era la copia sputata di Orfeo,  con il fisico però di un dio dell'acqua (tanto si trovava a suo agio in mare) e comunque con  la capacità di incantare gli animali: gli bastava accarezzare un micetto per farselo amico eterno e non toglierselo più di torno.
Credo di non aver mai più visto un sorriso tanto disarmante e bello quanto il suo.
Confesso che entrambe queste sue prerogative me lo facevano apparire oltremodo attraente (ché a tredici anni la superficialità è ancora concessa) ed io l'amavo segretamente di quell'amore che pare ucciderti, tanto è violento, totalizzante ed infelice - per sua stessa propria masochistica ed ascetica determinazione, dato che non lo si vuole vivere nel reale soprattutto a causa di una certa dose di vile terrore nel varcare la soglia misteriosa ed inquietante che segna l'abbandono inappellabile dell'infanzia -.

Lui non lo seppe mai, anche se mi stava sempre intorno e sacrificava spesso le sue serate jesolane potenzialmente gaudenti con ragazze e ragazzi più grandi di me e più disinvolti, per stare a farmi compagnia e chiacchierare davanti all'ingresso della casetta in cui alloggiavo, mentre sia la zia che la nonna - custodi, evidentemente, della mia virtù - ci spiavano attraverso i vetri delle finestre.
Qualche volta egli - che possedeva il fascino irresistibile del "bravo ragazzo"- tentò pure di estorcere loro il permesso di farmi uscire la sera con la sua compagnia di amici, proponendosi come cavalier servente e profondendosi in rassicurazioni, ma non ci fu mai niente da fare.
Al crepuscolo, quando la spiaggia è finalmente deserta ed il mare tiepido e liscio ( che era anche il momento in cui finalmente uscivo dalla mia tana di letture e di sogni d'amore sublimato per annusare l'aria salmastra e godermi l'orizzonte dalla battigia),  compariva per darmi dimostrazione di come gli dèi scivolino e volteggino e giochino nel loro elemento liquido - placenta della vita - senza la benché minima esitazione, con la più elegante e naturale disinvoltura.
 
Forse non era Orfeo/Nettuno, a pensarci adesso: magari era una foca antropomorfa. Buffo, forse allora ero una fanciullina innamorata di una foca. Ecco spiegata la mia successiva empatia per gli animali.

Un quattordici luglio mi fece un regalo: il testo integrale del Congresso del Partito Comunista Italiano (probabilmente quello tenutosi nel 1973). Ciclicamente mi risovviene questo aneddoto ed ogni volta mi stupisce. Nella nebulosa di memorie tanto imprecise e sbiadite non so capacitarmi del fatto d'esser stata inconsapevolmente - ragazzina appena quattordicenne - tanto evidente e leggibile per un conoscente da spiaggia con cui si cincischiava sotto l'occhio vigile delle mie tutrici, ma, soprattutto, così intimamente sicura di quale fosse la parte di appartenenza.

Belle illusioni, quelle dell'appartenenza.
Il Partito, la Famiglia, le Amicizie, le "compagne di lotta"...

Invece ora, amoretto di un tempo lontano, passato ed appena sfiorato Sandro, che chissà come sei e se ancora sei, nel mentre un amico - parimenti lontano ma reale - me l'ha citato in una nostra conversazione virtuale a proposito di alcune difficili situazioni d'esistenza  di alcuni di noi, io mi trovo costretta a parafrasare il buon Tolstoj e proclamare così che tutte le vite felici si assomigliano fra loro ma ogni vita infelice è infelice a  modo suo.
 
 

martedì 14 gennaio 2014

Tipi -16- I Melliflui/ Tipi -17- Gli Stupidi

La sedicente forza interiore che un tempo gli altri mi attribuivano e per cui, probabilmente, mi amavano, si alimentava, in fondo, esattamente in quella stima e nel bisogno che  mi manifestavano. Vale a dire: era un rimpallo, un miserabile castello di carta, un infantile miraggio mimetico.
Io detesto la piaggeria ed odio gli sterili ammiccamenti untuosi.  Così, uno alla volta, ho estirpato tutti i Melliflui, ché mi davano la nausea, ed ho visto scemare la forza dell'ego tracotante ed aumentare quella della disperazione in maniera esattamente proporzionale.
Ben mi sta: l'essere umano degno non può ignorare l'umiltà, ovvero la consapevolezza che, preso solo, circondato dai frammenti degli specchi infranti, rischia di non essere nulla. 
 
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Non ho niente contro gli stupidi puri, ovvero ignari d'esserlo.
In un certo senso provo addirittura invidia per alcuni di loro. Se la stupidità si sposa anche con la semplicità d'animo, autentica, è un dono innato: protegge dal dolore metafisico generico, quasi sempre causato dall'eccesso di lucidità e qualche lampo di veggenza. Invidio chi non soffre con l'anima e consumandosi dentro per le atrocità del mondo: tutto sommato è pur questo un atto implicito di umiltà, dato che soffrirci non le potrà lenire né tantomeno eliminare.
Non si fa che ritornare alla riflessione volteriana: l'indole sempliciotta è obiettivamente la più indolore, ma nessuno, tra i drogati del pensiero, la vorrebbe per sé.
 
( Da che cosa ci deriva tanta spocchia? L'Umanesimo, in realtà, è dunque  una malattia?)
 
Provo intolleranza e grande disprezzo, piuttosto, per gli stupidi convinti d'essere sagaci ed intelligenti, in modo particolare se appartenenti anche alla sottospecie degli ironici.
Sono, spesso, affetti da iper-autostima, malamente occultata, ed hanno sempre una moltitudine di Melliflui che indirettamente la rafforza. Com'è conseguente e logico, infatti, il mediocre che si autocelebra risulta polo attrattivo irresistibile per altri mediocri, e, se scribacchia, ciò genera un'orgia di parole spente e salamelecchi totalmente dimentichi di un decoroso senso del pudore, ma, soprattutto, del senno necessario ad esercitare la critica sui contenuti.


Siccome sono una donna, non sopporto in modo particolare le donne stupide che si credono sagaci ed ammiccano a temi femministi, senza accorgersi d'essere totalmente asservite alla logica ed al linguaggio maschilisti.
Così, nel descrivere -poniamo- un personaggio di genere femminile, si ritrovano a richiamare come prima "qualità" la bellezza, profondendosi nelle oziose puntualizzazioni di rito: "ma la bellezza interiore, eh!, non quella di trippe e carne, eh!, la bellezza che sta pure nelle espressioni, nelle rughe, nell'anima..." ecc.
A quel punto, il peccato di stupidità è già consumato, ché, comunque vada, l'idea che donna e bellezza sia un assioma, è più che mai perpetuato.
Tutto come sempre, belle mie.
 
 

sabato 4 gennaio 2014

Pretesti

Ma quanto siamo tutti magnanimi.
Nella festa orgiastica che quotidianamente allestiamo in onore del nostro stesso io, noi tutti, profeti del più impudico ed osceno individualismo, che miserabilmente confondiamo con la libertà, minimizziamo l'infame peccato d'idolatria - misura della nostra autentica pochezza -, a suon d'alibi e perdono delle nostre stesse colpe.
L'altro non è che un pretesto nebuloso di necessario contatto con quanto abbiamo già deciso a priori d'escludere dal nostro mondo.

 L'altro, in fondo, non è che un diversivo, una momentanea escursione, frettolosa e breve, mentre già agogniamo a rientrare dopo il primo passo. Gli scuri, appena socchiusi a consentire l'immissione di un po' d'aria fresca nelle nostre anguste, private, un po' malsane stanze interiori.
Afrore morboso, morbo della fame d'essere.

*

Quel poveraccio l'han trovato morto, al buio ed al freddo della sua casa cui avevano tagliato i fili per insolvenza.
Solo.
Solo come un uomo.
Non è stupefacente, in quest'epoca in cui ognuno starnazza proclami sulla giustizia sociale e s'indigna e twitta stronzate pseudo-filosofiche e pseudo-umanistiche e pseudo-politiche e pseudo-e-basta, che un uomo muoia da solo, di freddo e d'angoscia, senza avere nessuno al mondo da cui ottenere aiuto, nessuno da salutare, nessuno che lo cerchi?
In fondo non  lo è: chi proclama lo fa sui propri casi, le rivoluzioni son tutte settarie e di classe, da tempo immemore il dolore dell'esistenza è segregato nelle oscure stanze sotterranee delle vicende personali ed ormai incomunicabili.
La comunicazione è una necessità, ma non ci emenda dal nostro becero ed orribile egoismo .