Di norma, per andare avanti, lascio fare al mio personale pilota automatico : lei sa (perchè femmina è!) come condurre le quotidiane e pesantissime incombenze della sopravvivenza.
Ciò mi consente di dedicarmi alla mia naturale propensione alla meraviglia ed alla crudele autocritica, ancestrale retaggio di quando ancora mi credevo immortale, e di snocciolare come un rosario eterno le oziose domande "Chi sono-cosa voglio-che devo fare-e soprattutto ne vale la pena?", oppure anche "Chi è costui/costei (dei miei simili), com'è la sua logica, cos'è che 'sente' che io non intuisco, come sopporta la sua vita, che tipo di aspettative ha nei mei confronti, è sincero od ipocrita?"
Saperlo, ormai, sta assumendo la caratteristica di una vera urgenza, per ovvi motivi generazionali, ma più mi ci concentro e meno me ne capacito.
So bene che si tratta di un'attività tossica: con ogni probabilità mina la sanità nervosa, alla lunga, un po' come questa ballata poetica e monotona che ascoltavamo a 18 anni, ma con ben altra attrezzatura interiore e progettuale rispetto ad oggi.
"Chi arriva alla fine della canzone senza porre in atto il tentativo di suicidio che la mestizia di Lolli insuffla nell'anima vince un'ombreta di Raboso!" era il nostro scherzo tragicomico.
In sintesi si tratterebbe d'essere felici, che pare sia il fine umano per eccellenza, a detta di ogni filosofo classico.
Quindi, che devo fare? Devo cercare d'essere f e l i c e, è semplicissimo.
Le persone più felici che ho conosciuto erano -combinazione- anche piuttosto ottuse, oppure volutamente superficiali e frivole.
Quelle non stupide, invece, la felicità la fingevano, un po' come il cameriere di Sartre fingeva d'essere un cameriere.
Di felici (ovverossia 'sereni' ed in pace con sé stessi) secondo i dettami dello stoico Seneca, per esempio, non ne ho conosciuti mai.
Eppure, m'accorgo, che non li amerei per niente.
M'accorgo ora che odio l'idea della felicità personale e che nulla mi pare tanto indelicato e disumano quanto il sentirsi 'bene' in un mondo ingiusto e spietato in cui con la mia ipotetica felicità continuerebbero a coesistere d'intorno lacrime, urla, bestemmie, dolori immensi, soprusi, crudeltà ed orrori d'altri uomini e finanche d'animali.
Perciò, è deciso, io la sguaiata felicità non la voglio affatto finché esisterà anche un solo essere infelice, ma conoscere un pensiero al mio affine, già sarebbe una diminuzione d'infelicità, e mi resta il sospetto che pure questo sia indice d'egoismo..
E' per questo che detesto i corporativi, quelli che combattono furiosamente per il bene della loro categoria, della loro élite, della loro casta, del loro sindacato, del loro pollaio, della loro famiglia, di tutto quello che soggiace ad un criterio di appartenenza interessata e meschina, pronti a dimenticare, una volta sazi, l'infelicità che continua a stritolare gli altri.
Beh, comunque, sia chiaro, io non sono mica normale, eh...