Se solo l'avessi capita prima - l'antifona, intendo -, avrei provveduto per tempo a fortificare e magari anche anestetizzare con preventivi esercizi di stoicismo e quel tocco di cinismo che serve a cauterizzare ogni ferita insanata, le conseguenze di una ipertrofica sensibilità che, da quando ho memoria, rappresenta il mio stesso più crudele aguzzino e tiranno padrone.
Fino a ieri, piuttosto, nei miei immediati ed interiori giudizi sugli altri mi lasciavo sedurre dal facile impulso ad identificare quella altrui - spesso soltanto sedicente - con la nobiltà d'animo e me ne consolavo intimamente: intuire una sensibilità dolente in un altro me lo rendeva d'impeto amico.
Ora so che sbagliavo in modo davvero stupido, degno di una dilettante dell'esistenza, vittima di pregiudizi ed ingenuità.
Soffre "atrocemente", per motivi che via via agli occhi degli altri appaiono opinabili, un sacco di gente, sempre relativamente a personali velleità frustrate, alcune scandalosamente "immorali" e superficiali rispetto ad altre, ben più giustificabili.
C'è chi, dal conforto di una posizione piccolo-borghese (giusto per partire da un livello "medio") data come assoluto e scontato riferimento (al di sotto del quale esiste soltanto una sorta di magma di borgorigmi incomprensibili e pure fastidiosi provocati da una razza solo apparentemente umana ma di fatto aliena che parla di ristrettezze materiali, mancanza di lavoro e di casa, impossibilità di condurre un'esistenza appena dignitosa, assenza totale di progettualità del futuro, ecc.), accusa l'atroce mancanza di una magione circondata da un più ampio giardino; c'è chi lamenta la difficoltà a sostituire la propria auto, mentre ad un altro viene rubata la bicicletta, suo solo mezzo di locomozione per rincorrere gli orari schizzati della propria esistenza; c'è chi si addolora per essersi spezzata un'unghia appena laccata e chi ingoia la comunicazione di una diagnosi medica letale...
Ebbene, queste sono considerazioni tutto sommato banali - voglio credere estremamente popolari e di comune osservazione - e, ciononostante, non insegnano assolutamente nulla.
La nobiltà d'animo, la grazia innata, la magnanimità, hanno ben poco da spartire con l'automatismo che fa avvertire stilettate di dolore allorquando la natura - sempre morbosa e riflettente - dei rapporti con gli altri ce ne fornisce puntuali occasioni: quasi sempre è la nostra vanità ad accusare colpi; è l'orgoglio umiliato: si tratta di molto volgari elementi tipici di umano, che trae benessere soltanto nell'evocare, nell'amare, nell'idolatrare soltanto sé stesso. Soffriamo spesso compatendo noi stessi, nell'umiliazione del nostro consueto tronfio ego consapevole di non incidere e fulgidamente risplendere in questo mondo, che fingiamo di disprezzare.
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Quante volte abbiamo versato lacrime vere, nella penombra delle nostre tane (tane ingombre degli ammenicoli del mondo), sdoppiati nell'assistere al nostro stesso funerale. immaginando le pietose lacrime di chi accompagna il nostro feretro? Ecco: piangiamo commossi sul nostro stesso distacco dallo spregevole mondo, con una punta di soddisfazione se echeggiano le note della Lacrimosa mozartiana, che, per chissà quali pretesti presuntuosi, immaginiamo degna di accompagnare l'irrilevanza della nostra uscita di scena.
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Il solo modo di star bene nella propria pelle è prendere le distanze innanzitutto da sé stessi ed osservarsi con lo stesso distacco con cui si guarda uno sconosciuto, un tramonto, un albero, un sasso.
Allora, ecco che il giudizio non più obnubilato dal molle narcisismo, si fa più chiaro ed oggettivo, fin sereno.
Siamo più patetici o più ridicoli? Tentenno.
Ogni errore clamoroso, uno degli innumerevoli errori di critica che han alimentato il moto perpetuo della giostra di aspettative (necessariamente) deluse di cui carichiamo l'altro, reca un dolore, tutto sommato, meritato.
Tutto ciò per dire a chi sentivo amico, ma che non lo è né ha mai dichiarato d'esserlo, che non ce l'ho con lui e che le mie illegittime aspettative silenti sono sempre, sempre, clamorosamente sbagliate.