sabato 20 luglio 2019

Appunti antropocentrici -11-

Ci sono ancora cose, seppur sempre più rare, capaci di scuotermi e la loro suggestione, per pochi istanti, riesce a far riemergere quelle potenzialità vitali che mi appartengono per indole e che le restrizioni, i patimenti e soprattutto il sopravvenuto disgusto dell'esistenza hanno sepolto sotto cumuli di mortificazione ed una sorta di atarassia non già conquistata ma piuttosto subita per sfinimento.
Ascolto  "A woman left lonely" della Joplin e mi ricordo chi sono con esattezza perché le potenti  ripercussioni emotive che me ne derivano non possono essere che a me attinenti in modo unico ed esclusivo.
Nel passato è contenuta la certa testimonianza del fatto che sono stata capace di vivere in coerenza ed interezza con me stessa nonostante oggi il mio povero presente sia di fatto un disperato tentativo di sopravvivere sopra le righe senza consentirgli di insozzarmi e per fare questo devo anche dimenticarmi, rendermi assente, rinunciare alla mia verità.

Non ci è dato scampo, in quest'ultima lunga fase del tardo capitalismo: le opzioni fittizie a disposizione dell'individuo medio (la cui posizione nei suoi vari aspetti scivola progressivamente verso il baratro)  per poter vivere non sono che due: aderire alla dilagante edonia depressa -la scelta maggioritaria delle masse insulse e vacue- oppure optare per un dolorosissimo auto-confino meditabondo e comunque senza gioia.
Sono ancora e da sempre convinta che la tensione principale nella vita di ogni umano sia la felicità ma anche che felicità non sia sinonimo di piacere. Il piacere fine a se stesso è appannaggio dei poveri di spirito.

Quel che trovo stupefacente, piuttosto, è il grado di asservimento mentale, qualche volta inconsapevole, di cui fanno sfoggio, loro malgrado, i sedicenti intellettuali.
A che cosa, a chi servono?
E' meno arduo rispondere a questo piuttosto che chiedersi a quale platea ideale aspirino a rivolgersi.
C'è stato un tempo, in fondo non così remoto, in cui approfondire ed accrescere la cultura equivaleva ad aspirare alla libertà, innanzitutto di pensiero e giudizio personali ed immediatamente dopo generale, per tutti, di tutti, dell'umanità.
Quest'ultima è un'aspettativa desueta, se non morta: l'autoreferenzialità è il massimo delle loro aspirazioni.
Ne deriva, signori intellettuali-mezze-calzette d'oggi, che siete inutili, a causa della vostra completa assenza di coraggio e del vostro evidente, fin imbarazzante, povero narcisismo.

mercoledì 26 giugno 2019

Tipi -29- I sedicenti puri

Alcuni di loro perseguono a parole la giustizia sociale e la verità (per quanto amara), denunciando le contraddizioni del Sistema, ma nascondono la faccia dietro una maschera.
Sono, in genere,  sprezzanti e narcisisti, tronfi d'orgoglio malcelato, amici soltanto di chi li adula e li ammira o, nascostamente, di chi avvertono culturalmente ed intellettualmente superiore.
Ciò, a prescindere sia dalla sostanza, sia dalla forma, sia dalle contraddizioni più palesi, perché quello che davvero li traina, nel profondo, è la vanità.
Spesso quando di genere maschile, sono misogini e la loro superbia -rivelatoria di debolezza- li colloca irrimediabilmente tra i peggiori epigoni del peggior dottor Freud.
Dubito che nel Sistema perfetto saprebbero che farsene di sé, dubito che nell'utopistico mondo senza classi sarebbero migliori.
Le anime belle lo sono a prescindere da qualsiasi situazione e continuano, continueranno o continuerebbero, ad essere più rare degli unicorni.
 

venerdì 7 giugno 2019

Appunti antropocentrici -10-

Sulle prime, ad un esame frettoloso ed appena sfiorato del pensiero stesso, sono incline a classificare la mia sofferta reticenza ad una forma di pudore che induce la pervicace determinazione a non richiedere ad altri un aiuto -di cui avrei massimo bisogno- che non sia spontaneamente offerto: per non essere fagocitata dallo stato d'ansia generalizzata basterebbe la vicinanza fisica di un essere umano positivo, perfino se non brillasse in modo particolare d'empatia.
Non è così, invece: crederlo equivale a minimizzare la reale portata del problema, che è molto più grave.
Non chiedo aiuto perché so che mi verrebbe negato, per indifferenza sostanziale o per inettitudine a prestarlo.
Credo d'essermi vaporizzata, nell'ultimo decennio, sì che ora di me s'intuisce solo l'ombra: poco interessante, per nulla utile o divertente.
Resto una persona pratica perfino con le sinapsi impazzite. 

"La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza." (P.P.Pasolini)
Questa è la tragedia.

sabato 13 aprile 2019

Pungoli pasoliniani

Dirigenti, ex ed attuali,  simpatizzanti, sostenitori e fideisti, leggete e poi rileggete gli scritti di Pasolini e poi straziatevi la coscienza, se ne avete una o qualche residuo sfilacciato dopo lo scempio che i tempi e la  mediocrità delle indoli ne hanno fatto, per esservi detti od ancora dirvi di sinistra, secondo l'originaria accezione del termine.
Il dolore della perdita e l'orrore per una fine tanto violenta non mi impediscono di chiedermi come avrebbe potuto vivere nell'odierna realtà nonostante l'avesse preconizzata con sorprendente esattezza.
Sarà che la Gnosienne n.1 di Satie mi sta tracimando nelle ossa, ma la morte qualche volta mi appare più gentile e pietosa di certa vita.

 «Sono “bloccato”, caro Don Giovanni, in modo che solo la Grazia potrebbe sciogliere. Forse perché io sono da sempre caduto da cavallo: non sono mai stato spavaldamente in sella (come molti potenti della vita, o molti miseri peccatori): sono caduto da sempre, e un mio piede è rimasto impigliato nella staffa, così che la mia corsa non è una cavalcata ma un essere trascinato via, con il capo che sbatte sulla polvere e sulle pietre. Non posso né risalire sul cavallo degli Ebrei e dei Gentili, né cascare per sempre sulla terra di Dio». (PP Pasolini)

Non si sceglie d'essere ciò che si è, ma questo non è solo ineluttabile: è necessario.
Dati esempi di uomo, di poeta, di intellettuale lo sono per tutti quelli caduti da cavallo da sempre.

mercoledì 6 febbraio 2019

Pungoli grammaticali

*
 
"Per riassumere, l'uso di gli in luogo di loro, a loro, a essi e a esse è da considerare senz'altro corretto (Ora vado dai tuoi amici e gli dico che la devono smettere di fare chiasso), tranne che, forse, nel caso di registri altamente formali (Il parroco espresse loro le sue più sentite condoglianze). L'utilizzo, invece, di gli per le, è sentito più scorretto dell'altro perché ha subito e continua tutt'ora a subire una maggiore censura scolastica; quindi se ne tende a sconsigliare, nella maggior parte dei contesti, l'impiego." (Accademia della Crusca, Uso di gli per a lui, a loro, a lei, risposte a quesiti posti)

*

Si tratta più che di un mio cruccio, di una mia viscerale intolleranza: detesto udire e leggere gli -sia o meno considerato ugualmente corretto- al posto di loro. 
Mi piace usare il loro, che trovo elegante e niente affatto vecchio o formale, dato che non considero ogni forma sempre sospetta e nociva.
Pensare poi anche solo lontanamente di inglobare il le allo gli è puro sessismo: abominio.

martedì 5 febbraio 2019

Pungoli sentimentali

 
Da quando sono diventata cinica e disperata e la mia luce s'è spenta l'avevo dimenticato.
Avevo dimenticato quanto tu fossi sì mediocre, pavido, conformista, per tua stessa ammissione e quindi reo confesso, ma contemporaneamente poetico, come un bambino, e la tua intrinseca poesia -amalgama di forza e debolezza, dolore e gioia, ignavia e sorprendenti iniziative- mi ha legata a te indissolubilmente e per sempre, pur nell'assenza.
Mi amavi, infatti, come un bambino, combattuto tra generosa esaltazione e paura della più azzardata delle scelte, per te.

Ora ti aggiri nella mia memoria, come un fantasma inquieto, a ricordarmi d'essere stata un tempo solo apparentemente crudele ed invece magnanima come Circe nel favorirti, tutto sommato,  la continuazione del tuo viaggio.
Non ho alcuna colpa, allora,  se esso ti ha riportato esattamente là da dove t'illudesti di partire, mio povero caro, ma ti sono grata per l'implicita testimonianza che mi suggerisce il tuo ricordo perché,    profuse infinite lacrime e  versi e  parole, siamo stati più che ridicoli, vivi.


FERNANDO PESSOA, Tutte le lettere d'amore sono ridicole.
Tutte le lettere d'amore sono
ridicole.
Non sarebbero lettere d'amore se non fossero
ridicole.
Anch'io ho scritto ai miei tempi lettere d'amore,
come le altre,
ridicole.
Le lettere d'amore, se c'è l'amore,
devono essere
ridicole.
Ma dopotutto
solo coloro che non hanno mai scritto
lettere d'amore
sono
ridicoli.
Magari fosse ancora il tempo in cui scrivevo
senza accorgermene
lettere d'amore
ridicole.
La verità è che oggi
sono i miei ricordi
di quelle lettere
a essere ridicoli.
(Tutte le parole sdrucciole,
come tutti i sentimenti sdruccioli,
sono naturalmente
ridicole).

mercoledì 2 gennaio 2019

Buon anno, ma niente di nuovo: il primo attacco di panico del 2019.


E' chiaro che non vi sia scampo: era già tutto previsto per il passato ed è già tutto predisposto per il futuro.

Addivengo, a seguito di personale gestazione ed esperienza, al parto di un apoftegma che pare assurdo ed invece è logico: "Il Destino esiste/ il Destino non esiste./Dipende./ Da cosa?/ Dal Destino".

Chi o che cosa ne siano artefici o responsabili non lo so, ma è praticamente certo che correr l'alea all'infinito non è possibile perché ti usura e poi ti ferma definitivamente, soprattutto se il rischio non costituiva affatto una scelta ma il solo modo possibile per reagire allo sfacelo che ti tallonava, che  comunque incombe ed inesorabilmente ti carpirà.
E' altrettanto evidente che senza volere non si può nulla, ma che il luogo comune "volere è potere" è una menzogna assoluta, per di più ridicola, oggi più di un tempo.

(Loro, sono bravi.
I fatti pratici e le cose, le scaramucce politiche, il teatrino liturgico della vita, la partigianeria del rosso e del nero, il solito sesso, l'edonismo delle parole, li prendono ancora.
Spesso nella più inconsapevole malafede questi marci borghesi ritengono che la critica politica possa soppiantare la militanza concreta: son tutti unti d'illuminazione e consapevolezza suprema agevolate dal fatto d'avere conti in banca pasciuti e rassicuranti ed il sedere al coperto.
E' evidente che la coscienza, in costoro, un po' disturba, ma  sbeffeggiare il potere non equivale a combatterlo.
Ogni evo ha i suoi stilemi: ora sono satira, indignazione, ipercritica , ironia,  riesumazione confusionaria di qualche concetto marxista oppure machiavellico, nauseante spocchia narcisistica a suggerire linee guida per aspiranti intellettuali, sedicenti politici, e pure inutili blogger. Per i più pecorecci, invece, non trovo aggettivi abbastanza calzanti in grado di descrivere i miasmi fetidi che si spandono da una qualsiasi delle loro esternazioni, in modo particolare nei social.
Occupare la mente in questo modo è comunque terapeutico, bravi.)

Invece io, per ragioni elementari e complicatissime, chiare ed occulte, principali e subordinate, personali e più che universali,  continuo ad essere martirizzata da devastanti attacchi di panico, assediata da un nemico potente, invisibile e feroce che ha insediato il suo quartier generale esattamente nella mia gola.

" [...]  che cos'è che permette all'uomo, nonostante la sua consapevolezza della morte, di vivere e operare come se essa fosse qualcosa di estraneo a lui, come se la morte fosse un fenomeno naturale? Il tremito che mi ha scosso negli ultimi giorni mi ha aiutato a capire, nonostante i gravi attacchi di paura, che la mia malattia non è altro che questo: a volte, per ragioni a me del tutto ignote e per impulsi assolutamente incomprensibili, io divento 'lucido', in me compare la coscienza della morte, della morte in quanto tale; in questi momenti di illuminazione diabolica  la morte acquista per me il peso e il significato che essa ha 'an sich' e che gli uomini perlopiù non intuiscono nemmeno (ingannandosi con il lavoro e con l'arte, mascherando il suo senso e la sua 'vanitas' con formule filosofiche) scoprendo il suo vero significato solo nel momento in cui essa bussa alla loro porta, in modo chiaro e inequivocabile, con la falce in mano, come nelle incisioni medioevali. Ma quello che mi atterriva (la consapevolezza non genera consolazione) e accresceva ancor più il mio tremito interiore, era la coscienza che la mia follia era in fondo lucidità e che per guarire -perché questo tremito continuo è cosa insopportabile- avevo bisogno proprio della follia, della demenza, dell'oblio, e che solo la demenza mi avrebbe salvato, solo la follia mi avrebbe guarito! Se per caso il dottor Papandopulos mi interrogasse ora sul mio stato di salute, sull'origine dei miei traumi, delle mie paure, adesso saprei rispondergli in modo chiaro e inequivocabile: 'la lucidità'.
[...]"  (Danilo Kis, Clessidra)