domenica 21 novembre 2010

Malafede e Sincerità -2- Sartre e il cameriere

Dopo aver lasciato la ragazza al suo primo appuntamento in conflitto dualistico corpo/spirito (vedi post -1- in data 11/11/2010  dedicato a Sartre), ed aver decretato che l' antidoto alla malafede è la sincerità, spostiamo l' attenzione sul cameriere che serve ai tavoli del ristorante, sperando che la sua osservazione ci aiuti a comprendere che cosa sia effettivamente sincerità.

Eccolo che avanza:
"Ha il gesto vivace e pronunciato, un po' troppo preciso, un po' troppo rapido, viene verso gli avventori con un passo un po' troppo vivace, si china con troppa premura, la voce, gli occhi, esprimono un interesse un po' troppo pieno di sollecitudine per il comando del cliente, poi ecco che torna tentando di imitare nell' andatura il rigore inflessibile di una specie di automa, portando il vassoio con una specie di temerarietà da funambolo, in un equilibrio perpetuamente instabile e perpetuamente rotto, che perpetuamente ristabilisce con un movimento leggero del braccio e della mano. Tutta la sua condotta sembra un gioco. Si sforza di concatenare i movimenti come se fossero degli ingranaggi che si comandano l' un l' altro, la mimica e perfino la voce paiono meccanismi; egli assume la prestezza e la rapidità spietata delle cose. Gioca, si diverte."
(Jean Paul Sartre - L' essere e il nulla)

Sta giocando, naturalmente, ad essere cameriere. Non c' è bluf, il cameriere realizza la sua condizione di cameriere in perfetta sincerità. Una condizione che presuppone -come tutte le altre- una serie di atti, riflessioni e concetti, come, ad esempio, l' obbligo di alzarsi ad una certa ora, provvedere alle pulizie del locale, apparecchiare e sparecchiare i tavoli, i diritti alla retribuzione, alle mance, ecc..., anche se tutto questo, in un certo senso,  rinvia al trascendente.
Chiunque di noi, per esercitare il proprio particolare lavoro, deve per forza, sempre in quel certo senso recitare la particolare parte che questo richiede. Credo sia assolutamente ovvio.
Ma è altrettanto ovvio che il cameriere in sé non è un cameriere (non come, ad esempio, un qualsiasi oggetto è quel dato oggetto: una penna, un bicchiere sono oggettivamente penna e bicchiere): egli sta rappresentando l' essere cameriere, e purtuttavia non sta mentendo quando sente d' esserlo.
Ecco che  egli si trova nella condizione d' essere ciò che non è.
Noi non siamo alcuno dei nostri atti o comportamenti.

"Il buon parlatore è colui che recita a parlare, perché non può essere parlante (...) Perpetuamente assente al mio corpo, ai miei atti, sono a dispetto di me stesso la 'divina essenza' di cui parla Valéry. Non posso dire né che sono qui, né che non ci sono, nel senso in cui si dice 'questa scatola di fiammiferi è sulla tavola'; sarebbe confondere il mio "essere-nel-mondo'  con un 'essere-in mezzo-al mondo' (...) Da ogni parte sfuggo all' essere e tuttavia sono."
(Jean Paul Sartre -L' essere ed il nulla) -mie le sottolineature- (*)

Forse che questo paradosso si verifica soltanto nel caso dell' esercizio di un mestiere, nell' esecuzione di azioni? 
No.

Vale anche per gli stati d' animo personali ed intimi, come ad esempio -così ci esemplifica il filosofo- la tristezza.

Albrecht Dürer "La melanconia"
Sentirsi tristi: da quella sensazione -ciò che sentiamo con certezza d' essere- deriva un preciso comportamento.
Ne rappresentano l' inconfutabile espressione un abbandono generale della postura del corpo, la testa un po' abbassata, lo sguardo incupito e fosco, le spalle incurvate, le gambe strascicate.
Noi sappiamo anche che potremmo benissimo decidere di non adottarlo e -supponiamo all' incontro con un estraneo cui non desideriamo manifestare il nostro stato- repentinamente ergerci nella nostra statura, alzare la fronte, adottare un passo sicuro ed elastico.
Dov' era la tristezza nel momento in cui il comportamento esterno è momentaneamente mutato?

"E, d' altronde, non è anch' essa un 'comportamento' questa tristezza, non è la coscienza stessa che si riveste di tristezza come un magico rifugio contro una situazione troppo opprimente?"  (*)

Pare allora che essere triste sia farsi triste.

Con quale certezza, quindi, possiamo dirci sinceri? Esiste un' oggettiva possibilità di identificazione con la sincerità?
Poniamo il caso che un uomo sia cattivo e se lo confessi. Egli, con l' atto della sincerità, contempla sé stesso nell' esercizio della sua "libertà di scegliere il male" ed in tale contemplazione la disarma, perché essa non è più nulla al di fuori dal piano del determinismo: confessandola egli le contrappone la sua libertà, il suo avvenire è potenzialmente vergine, tutto sarà possibile.
Così l' uomo cattivo sincero si costituisce come ciò che è per non esserlo. La sincerità ha dunque la stessa struttura essenziale della malafede.

"Se la malafede è possibile, è perché essa è la minaccia immediata e permanente di ogni progetto dell' essere umano, è perché la coscienza nasconde nel suo essere un rischio permanente di malafede. E l' origine del rischio è che la coscienza, nel suo essere e contemporaneamente, è ciò che non è, e non è ciò che è." (Jean Paul Sartre -L' essere ed il nulla)

E' un giochino davvero complicato, da proseguire, da scandagliare...
Che sia scontato, intanto, chiederci se noi siamo, oppure, invece, esistiamo?










1 commento:

  1. Solo di fronte a esperienze estreme si smette, forse, di interpretare un ruolo. Dentro a un aereo che precipita, ad esempio. Si è pura esistenza urlante.
    In un letto d'ospedale, si può fingere quasi fino alla fine.
    Ma poi Sartre non ha fatto altro che descrivere "all'occidentale" esperienze che la "saggezza" orientale ha già intuito da millenni.
    Nel Dhammapada c'è scritto: non c'è strada e non c'è viaggiatore. Non c'è azione e non c'è chi agisce.

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