Il prezzo della conoscenza, ossia del soddisfacimento dell'umana curiosità, è la disperazione, perché conoscere avvicina alla verità delle cose, ne scalfisce quella corazza di incrostazioni e sedimenti - fatta di piccole ipocrisie, omissioni, miopie intellettuali, ignavia, pietà per sé stessi - con cui esse si presentano ai più generici ed epidermici esami e vedere con qualche chiarezza le cose per ciò che più probabilmente, anche se approssimativamente, sono davvero - ossia con sguardo il più possibile spassionato -, nella maggioranza dei casi è onestamente risolutivo e letale.
D'altro canto, laggiù, nell'Eden, Dio li aveva avvertiti e chissà la goduria, poi, nel considerare la perfezione della sua trappola: creature pungolate irresistibilmente dalla meraviglia ed affascinate dalle scoperte, per loro stessa natura, loro malgrado anche a costo della dannazione.
Sono assolutamente convinta che la condizione umana sia, fra tutte le animali, la più paradossale: dotati di notevoli potenzialità intellettive, gli uomini le hanno storicamente utilizzate per costruirsi la gabbia di tollerabile infelicità che li autorizza a giustificare poi la mollezza con cui trascinano i loro rapporti più intimi e necessari, le loro espressioni sentimentali ed amicali, il nocciolo vero d'essere umano.
La speranza, per definizione, attiene a ciò che non ha e potrebbe non aver mai materia e realizzazione, è consolatoria, aleatoria, sognante, il più delle volte assurda. Deve essere lasciata così, nel limbo dell'utopia, ché, se ciò non fosse, ci vorrebbe il durissimo lavoro di renderla progetto, di farla scopo, nonché di attrezzarsi per produrne un'altra, diversa, nuova, onde alimentare il ciclo ineludibile e dannato del desiderio.
Così i più tergiversano, e preferiscono parcellizzare la loro sedicente critica, sia essa concernente le cose private sia quelle pubbliche, lasciando ampi aloni di inconoscibilità ed approssimazione, tamponati dall'eterno ricorso all'alibi dell'umana imperfezione, dell'umana limitatezza.
Quando di ciò si ha intuizione, ma si preferisce non tenerne conto, si è in sostanziale malafede.
Dirsi umani, d'altronde, genera almeno una doppia accezione: per gli specisti motivo di vanto ed orgoglio giacché presuppone superiorità assoluta sui viventi e tanto basta per non sottilizzare e cavillare troppo sugli espedienti e sulle modalità del vivere in generale -; per gli altri, invece, una certa comoda presunzione di fallibilità attribuita sempre allo strapotere della nostra natura emozionale che giustifica poi anche la propensione al viscidume, all'autoreferenzialità, a quell'edonismo crapulone che ci fa voltare lo sguardo in un istante, azzerando senza rimpianti il pathos di quello appena precedente con il quale avevamo intuito - indignati - lo sconcio di un'ingiustizia, o la partecipazione al dolore dell'altro; meno male, sì, che abbiamo memoria e concentrazione labili e molli.
Intanto, il tempo scorre, implacabilmente. Domani morremo. E' seccante, ma è certo.
Bisogna farci entrare tutto quanto - pure la consapevolezza estrema del nostro morire - in ogni momento da vivi.
Nell'istante in cui lo si decide, in cui lo si percepisce senza tema di smentita, la vita trascolora, si fa nebbiosa, indistinta, deludente, lo spleen permea di noia il più ameno degli spettacoli, sovente si osserva la propria esistenza come spettatore tediato di una pantomima malriuscita o come l'escursionista d'alta via montana che prova ad evitare di calpestare, lungo il sentiero, le deiezioni degli armenti al pascolo: inutile, sono ovunque.
Cerco, allora, una voce, uno scritto, un'armonia, l'espressione di un volto con guizzo inconsapevole d'intelligenza, di pienezza dell'essere, di adesione incondizionata, ma esclusiva, all'obbligo del respiro. Cerco e non trovo: qui non c'è , ogni volta mi illudo che ci sia, ma era il solito inganno della mente asservita ai miei stessi desideri.
La sola cosa che serve è fortissimamente amare, fortissimamente essere amati.
E' troppo, per i troppo-umani.
Intanto, il tempo scorre, implacabilmente. Domani morremo. E' seccante, ma è certo.
Bisogna farci entrare tutto quanto - pure la consapevolezza estrema del nostro morire - in ogni momento da vivi.
Nell'istante in cui lo si decide, in cui lo si percepisce senza tema di smentita, la vita trascolora, si fa nebbiosa, indistinta, deludente, lo spleen permea di noia il più ameno degli spettacoli, sovente si osserva la propria esistenza come spettatore tediato di una pantomima malriuscita o come l'escursionista d'alta via montana che prova ad evitare di calpestare, lungo il sentiero, le deiezioni degli armenti al pascolo: inutile, sono ovunque.
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Cerco, allora, una voce, uno scritto, un'armonia, l'espressione di un volto con guizzo inconsapevole d'intelligenza, di pienezza dell'essere, di adesione incondizionata, ma esclusiva, all'obbligo del respiro. Cerco e non trovo: qui non c'è , ogni volta mi illudo che ci sia, ma era il solito inganno della mente asservita ai miei stessi desideri.
La sola cosa che serve è fortissimamente amare, fortissimamente essere amati.
E' troppo, per i troppo-umani.
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E' curioso, sto vivendo una fase molto simile a quella che descrivi ... è come se le illusioni su me stesso (le poche che mi restavano) si stiano sgretolando, senza peraltro darmi la sofferenza che avrei creduto. Semplicemente mi guardo e mi dico: è tutto qui. Non è questione di generica imperfezione, meno che mai di perfezione, di natura umana o che so io ... ed è vero che c'è della malafede, spesso, nell'appellarsi alla fallibilità umana. Insomma, il fatto è che non ci sono scuse e che è tutto qui e che questo, probabilmente è essere umani.
RispondiEliminaCiao Morena
Vero: non ci sono scuse, "tutto è qui"; neppure per me ammetterlo costituisce gran motivo di esaltazione o di gioia, ma l'amarezza è il prezzo dell' essere veri.
RispondiEliminaConfesso che per me, al contrario, contemplare la mia vita e la mia verità ad occhi aperti ha recato molto dolore e che l'illusione più difficile da smascherare ed abbandonare è stata quella di poter porre rimedio alla drammaticità inesorabile della solitudine interiore.
Ora la guerra è persa e non rimane che l'accettazione dell'evidente fatale esilio,
Non mi conforta sapere che sia anche probabilmente l'esilio di una moltitudine di altre monadi: son sempre stata un po' caparbia.
Ciao, caro Massimo. Un sorriso.