domenica 9 gennaio 2011

Nel ventre del Leviatano

Per qualcuno, anche se non ancora vecchio, non totalmente vinto, non definitivamente finito, la sua stessa vita può essere ugualmente 'sopravvivenza'. Succede. Io lo so bene, parola mia, con pesante cognizione di causa.
Ed a farlo succedere non serve un solo, esemplare, apocalittico evento.
Basta anche il lento stillicidio di circostanze avverse -forse pure diluito nel tempo-; basta lo sgranarsi di beffe e casualità; basta l' accumulo di domande irrisolte, capace di sedimentare e dare vita al più spaventoso, duro ed invincibile Leviatano d' angoscia, capace di disamorare alla speranza e succhiare ogni rimasuglio di energia.

Quel disamore alla speranza non è neppure lontanamente semplice indirizzo pessimistico (magari a titolo cautelativo o propedeutico ad un rafforzamento del carattere), no davvero; esso è senso della realtà, nudo e crudo, al quale si può anche aver per decenni opposto uno straordinariamente vigoroso contrasto in termini di coraggio, d' intraprendenza, di reattività stoica.
Il tutto, inutilmente.
Se la battaglia della propria esistenza ha caratteristiche cosmiche, se le proprie armi sono ridicoli stecchini che l' immane falce spezza con il semplice spostamento d' aria, non esiste alcuna possibilità, né è consigliabile coltivare ulteriore illusione.

Si sta lì, allora, acquattati nell' orribile ventre della Bestia, in incurante attesa della conclusione della sua disgustosa peristalsi, certi soltanto d' essere ancora ciò che si è.


Pollock- Moby Dick

"...
M quella notte in particolare mi capitò una cosa strana, che non sono mai riuscito a spiegarmi. Svegliandomi di colpo da un breve sonno in piedi, ebbi l' orrenda sensazione di qualcosa di fatalmente sbagliato. La barra ricavata da una mandibola di capodoglio mi percuoteva il fianco che le appoggiavo contro; nelle orecchie avevo il sordo fruscio delle vele che proprio allora cominciavano a fremere al vento; pensai di avere gli occhi aperti e mi resi vagamente conto di essermi meccanicamente portato le dita alle palpebre per splancarle al massimo. Eppure davanti a me non vedevo più la bussola che mi serviva a governare, benché non mi sembrasse trascorso più di un istante dall' ultima volta che ne avevo guardato il quadrante alla luce ferma della lampada della chiesuola. Davanti a me non vedevo che il buio più fitto, reso a intervalli spettrale da lampi rossastri. Soprattutto, avevo l' impressione che ciò su cui mi trovavo -qualsiasi cosa fosse- più che puntare verso qualche porto, si allontanasse a folle velocità da qualunque porto si potesse trovare alle sue spalle. Mi sentii invadere da un' angosciosa senzazione di morte. Agguantai convulsamente la barra del timone, e così facendo ebbi la curiosa sensazione che questa avesse, come per incantesimo, invertito la propria posizione. "Dio mio! Cosa mi prende?" pensai. Ebbene! Durante quel mio breve sonno avevo fatto un mezzo giro, e adesso ero rivolto verso poppa, con le spalle alla prua e alla bussola. Mi voltai di scatto, giusto in tempo per evitare che la nave straorzasse, e molto probablmente si capovolgesse. Come fui contento e riconoscente di essere scampato a quell' innaturale allucinazione notturna, e al terribile rischio di ritrovarmi col vento dalla parte sbagliata! O uomo, non fissare il fuoco troppo a lungo! Non sognare mai con la mano sulla barra! Non dare le spalle alla bussola, accogli il primo avviso del timone che ti tocca il fianco, non credere al fuoco artificiale che col suo bagliore rende tutto più spettrale. Domani, alla luce naturale del sole, i cieli torneranno luminosi; coloro che balenavano come diavoli tra lingue di fiamma, al mattino si mostreranno in tutt' altro, o quanto meno più gentile, rilievo. Il sole radioso, raggiante, ridente, è l' unica vera sorgente luminosa... ogni altra è soltanto una menzogna!
Eppure il sole non nasconde le lugubri paludi della Virginia, né la maledetta campagna romana, né l' immenso Sahara e tutti i milioni di miglia di deserto e sofferenza che stanno sotto la luna. Il sole non nasconde l' oceano, che è il lato oscuro di questa terra e ne ricopre i due terzi. Perciò il mortale che reca in sé più gioia che dolore, quel mortale non può essere sincero, e se è sincero deve ancora farsi le ossa. Lo stesso vale per i libri. Il più sincero tra gli uomini è l' Uomo dei Dolori del libro di Isaia, e il più vero dei libri è quello di Salomone, e l' Ecclesiaste è l' acciaio temperato della sofferenza. "Tutto è vanità" TUTTO. Questo mondo caparbio non ha ancora assimilato la saggezza del non cristiano Salomone. Ma chi scansa prigioni e ospedali, e traversa in fretta i cimiteri, e preferisce parlare di bel canto anziché dell' inferno; chi considera Cowper, Young, Pascal e Rousseau dei poveri malati, e per un' intera spensierata esistenza giura sulla suprema saggezza di Rabelais, che proprio per questo lo diverte da matti... questo non è l' uomo adatto a sedere su una pietra tombale, e a calpestare il verde, umido muschio assieme al grandissimo, meraviglioso Salomone.
Ma perfino Salomone sostiene che  "l' uomo che si allontana dalla via della sapienza rimarrà (mentre è ancora in vita) nella congregazione dei morti". E dunque non abbandonarti al fuoco, affinché non ti faccia girare su te stesso fino a tramortirti, come accadde a me in quell' occasione.
Esiste una saggezza che fa male, ma anche un dolore che è pazzia. In certe anime si libra un' aquila reale capace di tuffarsi in picchiata nelle gole più buie, per riemergere e salire talmente in alto da confondersi col sole. E perfino se restasse per sempre nella gola, quella gola si trova pur sempre tra le montagne, per cui anche nel punto più basso l' aquila di montagna volerà sempre più in alto dei suoi simili di pianura, per quanto questi tentino di innalzarsi."

(Herman Melville,Moby Dick o la balena, Edizioni Frassinelli 2001)

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