E' una vera ingiustizia dire che i nichilisti, con il loro crudo approdo alla constatazione del nulla e dell' assurdo, sono tipi da rifuggire.
Meriterebbero almeno la tacita stima di chi ha a cuore, nel profondo, l' esercizio della sincerità, fosse pure soltanto quella altrui, risultando loro impresa irraggiungibile l' esercizio in proprio della stessa.
A me pare indubbia la nostra umana esotistica sotterranea natura, così propensa all' auto-indulgenza, all' accettazione soprattutto inconsapevole del plagio, alla vocazione all' illusione; a me pare abbacinante la nostra propensione ad un certa ignavia nell' accettazione di molte oggettive verità.
Ma le verità ineccepibili, empiriche, rimangono.
Sono poche, pochissime ed essenziali, ma ci sono.
Una di queste -forse la più agghiacciante- è che dovremo staccarci volenti o nolenti dalla sola cosa che davvero ci preme, il nostro Ego/Io e Sé; l' altra è che senza il supporto interiore di sogno, fantasia ed immaginazione forse non ce la faremmo.
Il rischio maggiore che il nichilista moderno corre è quello d'esser tacciato d' aridità, d' insensibilità, di anafettività, di disarmante ed infruttuoso decadentismo, e questo costituisce un gigantesco ossimoro, perché egli, invece, ha avuto talmente tanto amore per l' uomo, la sua intelligenza e la sua anima, da ritenerlo degno di sostenere sulle proprie spalle anche il macigno della verità ad occhi spalancati.
Chi merita assistenzialismo, cautele, protezionismo, fornitura di alibi e tortuosità metafisiche, se non il debole?
Non che la debolezza e la fragilità siano reati o terribili colpe: il problema è che non consentono movimenti, che condannano alla stasi ed alla prudenza nonché, troppo spesso, a compromessi poco onorevoli.
Per quanto io possa definirmi, in tutta tranquillità, una persona tollerante, continuo a considerare estremamente sgradevole ogni forma di esternazione vittimistica. Non mi piacciono né la commiserazione, né, tanto meno, l’ auto-commiserazione. Sono convinta che nel corso della vita di ciascuno accadimenti massimamente dolorosi e difficili circostanze non siano evitabili e non potranno mancare. Forse si potrebbe discutere sul peso oggettivo di ciò che dà sofferenza, naturalmente, ma, a prescindere dalla scala di valore, le sole persone tutte felici che mi pare di aver conosciuto, erano anche microcefali. Questo, idealmente, ci rende tutti fratelli e ci impone l’ acquisizione di una certa dose di stoicismo e lucidità, in grado di fornirci il supporto per non soccombere.
Qualcuno, a questo punto, evoca Amore. "C' è l' Amore a consolarci dalla condanna": bella ovvietà, ma bisognerebbe riuscire anche a definirlo in modo certo e giusto...
***
Una delle immagini di Iliade che io amo profondamente e che, ad ogni lettura, mi riempie il cuore di tenerezza e compassione, si svolge dopo l’ uccisione del dolce Patroclo, il diletto di Achille. Nel campo di battaglia,intriso del sangue e cosparso dei corpi dei caduti, giunge Automedonte, il cocchiere di Achille, per raccogliere il cadavere del giovane. Conduce il cocchio con i due cavalli immortali e parlanti Balio e Xanto . Questi ultimi ad un tratto si rifiutano di muoversi, perché paralizzati dalla tristezza: vivendo con i mortali avevano imparato il dolore, perché non c’ è nulla che viva e respiri su questa Terra tanto infelice quanto l’ uomo.
“ …
Di Dïorèo
il forte figlio Automedonte invano
or con presto flagello, ora con blande
parole, ed ora con minacce al corso
gli stimola. Ostinati essi né vonno
alla riva piegar dell'Ellesponto,
né rïentrar nella battaglia. Immoti
come colonna sul sepolcro ritta
di matrona o d'eroe, starsi li vedi
giunti al bel carro colle teste inchine,
e dolorosi del perduto auriga
calde stille versar dalle palpebre.
Per lo giogo diffusa al suol cadea
la bella chioma, e s'imbrattava. Il pianto
ne vide il figlio di Saturno, e tocco
di pietà scosse il capo, e così disse:
O sventurati! perché mai vi demmo
ad un mortale, al re Pelèo, non sendo
voi né a morte soggetti né a vecchiezza?
Forse perché partecipi de' mali
foste dell'uomo di cui nulla al mondo,
di quanto in terra ha spiro e moto, eguaglia
l'alta miseria?
..."
***
La condizione di creatura esposta alla fatale infelicità, per sua stessa natura, è contenuta nel nostro sapere ancestrale e nei nostri stessi geni.
Eppure, miracolosamente, nel primo giorno del nuovo anno, abbiamo riaperto gli occhi.
Provo, per gioco, a contrastare un po’ il tuo discorso. Che il Nulla non esista è in fondo l’unica cosa che sappiamo “certa”, in presa diretta. L’alternativa al Nulla non è infatti l’inconcepibile Tutto, bensì il Qualcosa. E che qualcosa esista penso sarai disposta a convenire con me. Credo quindi che si adoperi il termine “nulla” come un semplice dispregiativo nei confronti dell’esistenza dell’universo, e/o della nostra vita e coscienza individuale all’interno di esso. Ma in realtà questa vita ci piace dannatamente per moltissimi aspetti (altrimenti non saremmo qui a discuterne :-) anche se poi ci delude mortalmente per alcuni altri. Quali? Intanto la durata: non vogliamo invecchiare, perdere le belle cose che abbiamo, non vogliamo soffrire troppo, e non vogliamo morire! Solo secondariamente ci irritano altri limiti “creaturali”, come i severi limiti alla capacità d’intelligere, di generare bellezza e significanza. Ma bastano questi innegabili aspetti negativi a rimuovere significato da tutto quanto? Io direi proprio di no. Sarà anche vero che l’universo non è realmente “centrato” su di noi (come talvolta si illude da bambini, o come ci propinano certe favole religiose) però dichiararne inesistente il “senso” soltanto perché non lo sappiamo cogliere (oppure inventarcene uno in maniera autoconvincente) non mi sembra molto razionale. Certo talvolta si profila qualche senso un po’ troppo terrificante per noi mammolette, però la profondità – e corrispondente, abissale meraviglia – dell’universo, o dell’Essere, non può davvero venire azzerata, non credi? :-)
RispondiEliminahttp://www.youtube.com/watch?v=WlBiLNN1NhQ&feature=player_embedded
RispondiElimina:-)
Se una cosa non è, il Nulla -in effetti-, trattandosi della negazione assoluta del Tutto, pure, non può essere. Ma noi, da esseri finiti, circoscriviamo il Nulla al nostro personalissimo microscopico universo.
RispondiEliminaIl fatto è che noi umani non ci facciamo bastare l' essere umani (con la definitiva accettazione dei limiti di conoscenza e d' azione), ma vorremmo farci Dio e la frustrazione di non potervi che aspirare senza alcun esito, ci lacera e ci dispera. In un certo senso, noi siamo condannati dalla nostra stessa libertà: talmente estesa -nella sua potenzialità- da risultare frustrante e paradossale. A fronte di un' intelletto per definizione infinito (non c'è cosa che ti sia vietato immaginare, sognare, desiderare, né alcunché in grado di controllare il tuo pensiero od impedirlo)cozziamo contro la limitatezza dei mezzi, delle forze, della morte. Seppure sorvolassimo sulla nostra finitezza fisica, se pure riuscissimo a digerirne la dura consapevolezza con sufficiente serenità, saremmo ugualmente investiti dal paradosso di non poter effettuare che qualche sparuta scelta a fronte delle potenzialmente innumerevoli che saremmo in grado di concepire mentalmente.
Per non parlare, Elio, della possibilità di espressione dei sentimenti (la nostra maggiore e più elettiva risorsa): spendere tutto sé stessi nelle riduttive parentesi di qualche rapporto codificato e serrato entro anguste pareti...
... inoltre, come egregiamente tu osservi, quel che non comprendiamo ci terrorizza, talvolta al punto tale da augurarci la non-esistenza, come ben avevano concluso i Greci.
In fondo siamo tutti anime incommensurabilmente belle [tranne quelle di chi ci governa, spurie dell' Umanità... ;)], guerrieri eroici, quando spalanchiamo gli occhi sul nostro destino.
Quel Nulla, infine, è l' assenza di risposte.
La forza cui attingere è la sola possibile: l' altro. Per questo, io non vedo soluzioni diverse ad una perenne disposizione filantropica della nostra coscienza.
Grazie per il link: sei forte, è davvero esilarante. Un abbraccio. Morena.
ho stampato tutto...l'argomento mi interessa parecchio...
RispondiEliminasento la presenza della weil, in questo tuo dire ispirato alla Grecità che non conosce dolore, ma che lo evoca proprio per questa sua assenza...
RispondiEliminal'umano deve accettare la sua condizione di umano, per essere felice...ciò non toglie che possa esistere un Mozart, e che abbia potuto suonare una musica divina :-)
Ti abbraccio, mia cara Morena
carla
Dolce Carla, la felicità è il nostro eterno Godot, ma non abbiamo ancora perduto definitivamente la capacità di scorgere il sublime, seppur io sia più marcatamente beethoveniana...
RispondiEliminaUn abbraccio. :-)
Morena