Fosse nata soltanto qualche decennio dopo, il suo destino sarebbe stato completamente diverso e forse pure benevolo, anziché tragico, come, invece, si dimostrò d' essere.
Virginia Woolf era scrittrice, una donna sensibile ed intelligente, un' artista, con le intuizioni e la genialità del caso.
La nostra vita è in gran parte il frutto di imperscrutabili coincidenze e fatalità. La neuropsichiatria moderna forse avrebbe potuto aiutarla.
Soffriva di depressione, acuita e favorita dai numerosi e crudeli lutti che subì fin dai primi anni d' età: la morte della madre, quella del padre, e quella dell' adorato fratello che condivideva la sua passione per le lettere. Nella sua giovinezza subì anche abusi sessuali da parte di un fratellastro.
Quella che lei definiva "pazzia" aveva un effetto stimolatore sulla sua produzione letteraria e le aumentò ispirazione ed intuizione creativa. Scrisse molti romanzi, in cui il più sotterraneo e contemporaneamente cosmico spirito femminile aleggiava. Sposò un uomo che l' amava.
Ma la malattia nervosa albergava in lei e le smorzava la forza e la gioia di vivere: udiva voci dentro di sé che incessantemente parlavano e non le davano pace.
Una mattina di primavera, preso il suo bastone da passeggio, lasciò la sua casa di campagna nel Sussex e si avviò verso la sponda del fiume Ouse. Riempì le tasche della sua veste con pesanti pietre ed entrò nell' acqua, lasciandosi annegare. Lasciò lettere di scuse, consapevole del dolore che quel suo gesto avrebbe causato in chi restava ed aveva cercato in tutti i modi di sostenerla.
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E' un quadro di sofferenza solitaria, che neppure l' amore ricevuto poteva sollevare. La sua storia mi ha sempre mossa a compassione, dettata da profonda empatia.
Penso al dolore di molti, ed alla crudeltà fatale che determina talvolta il nostro destino d' umani.
Penso che non si possa chiedere a chiunque di emulare il biblico Giobbe, perché non tutti siamo Giobbe ed il suo Dio di non tutti si avvede e non a tutti rivolge la parola.
Penso che siamo troppo -e scandalosamente- soli, e che la nostra tristezza sia legittima e sempre eroica.
Spesso la tragicità dell' esistenza non sta nella solitudine in sé e per sé, rispetto alla quale ciascuno di noi potrebbe attrezzarsi spiritualmente, fosse pure accettandola od usandola per la realizzazione della propria indole, ma bensì nel non poterla vivere o subire che a metà in una situazione di frustrante inconcludenza: eternamente isolati dentro e purtuttavia attorniati da una vociferante folla fuori.
Una folla che, blaterando e gesticolando convulsamente a dispetto della tua esistenza -di cui non s' avvede e non ha alcun bisogno-, rappresenta grottescamente l' assenza, anziché la presenza di tuoi simili.
Tutto questo tiene sospesi in un limbo in cui non si è completamente né soli né uniti a qualcosa o a qualcuno: esseri incompiuti e girovaghi, desideranti in eterno una forma definita che mai arriverà.
Non si dovrebbe dibattere sull' eticità della morte e della vita: non sono eventi accessibili alle parole, non appartengono alla sfera dell' intelletto, non possiedono logiche e percorsi determinati o determinabili: sono quanto di più esclusivamente personale ed intimo ciascuno di noi possegga, affari di ogni nostra unica ed esclusiva anima.
Ogni riferimento alle correnti opinionistiche contrapposte "eutanasia/pro-vita" mi fa, letteralmente, orrore.
E nefanda mi pare e mi disgusta la solerte pretesa di chi (Stato, Chiesa, Scienza) pretende di "difendere" il tuo diritto alla tua vita o alla tua morte quando entrambe non hanno ormai speranza di alcun sviluppo né futuro, mentre della precedente tua esistenza - nella sua complessità od anche pesante difficoltà-, non s'é mai né accorto, né curato. Nella società perfetta, avrebbe, invece, dovuto.
Finalmente sono riuscita a linkarti! trovo il tuo blog interessantissimo...
RispondiEliminaBuona notte:-)
carla
Io confesso d' essere un po' "impedita" nel destreggiarmi tra alcune funzioni tecnologiche...
RispondiEliminaGrazie della stima, Carla.
Tra le altre cose, apprezzo molto la tua dolce spontaneità.