mercoledì 20 ottobre 2010

Le repliche della Storia



La mia condizione psico-esistenziale, da quando posso dirmi adulta, può equipararsi a quella di una sopravvissuta. Sono, infatti, sopravvissuta ad un impressionante numero di cadute ideali, tanto da sapere con sicurezza che l' abisso finale non sia poi così distante, ormai, e da guardarlo in relativa lontananza con un certo qual sollievo.

Questo perché io non so "distrarmi" e non riesco a dimenticare. Seppur potessi, tra l' altro, non lo vorrei. Pare proprio che la felicità non possa essere annoverata tra le priorità della mia vita, giacché –a ben guardare- non mi sono mossa mai in direzione della sua conquista.

E' evidente che nella mia indole non è il piacere a costituire il pungolo ad esistere, ma, piuttosto, lo sono la curiosità e lo stimolo alla comprensione della globalità dei significati che l' esistenza possiede ed i meccanismi, più o meno difettosi, che noi esseri pensanti e tronfi d' orgoglio adottiamo per rivestirne quella che probabilmente è, invece, una sostanziale neutralità ed indifferente inerzia. Il significato delle esistenze molto probabilmente sta nel non significare niente.

Prima di oggi, però, come tutti, ho sognato. Ora ho smesso, ed è il solo vizio di cui sia riuscita a liberarmi.

Sognando con violento desiderio, con presuntuosa pseudo-veggenza -poi rivelatasi infondata-, con autentica passione, quasi carnale, mi inventavo la Bellezza e la Giustizia.
Desiderare è sempre male e fa sempre molto male. S'ha da essere realistici e freddi, anche se non è più così divertente. S' ha da crescere, smontare dalla giostra dei sogni.
Il desiderio costituisce motivo per dolersi di un' infinità di obiettivi perduti e crea, in tal modo, enorme risentimento, generalmente, per i più puri, indirizzato verso sé stessi.
Quando sento ripetere da qualcuno il luogo comune che "la vita è sacra" reprimo la stizza.  "Era sacra"- vorrei puntualizzare io a questi saccenti- ;"lo era prima che dimenticassimo gli obblighi imprescindibili nei confronti di ogni altro nostro simile cui ciascuno di noi sarebbe stato eternamente tenuto. Diteglielo un po' agli ultimi della terra, ai dannati, ai perseguitati, ai nuovi disoccupati..."

Giacché non una soltanto delle mie speranze giovanili ha trovato soddisfazione, vuoi per impossibilità, vuoi per mia colpa ed incapacità, io sono enormemente risentita con me stessa. Ma i miei ricordi sono abbaglianti e precisi. Talvolta me li "ripasso", giusto per controllare le attuali conclusioni e non peccare di superficialità, ed oggi mi è ritornato in mente un tratto di un romanzo di E. Morante (scrittrice straordinaria che ho infinitamente stimato, forse perché donna pragmatica ma appassionatamente impegnata, nonchè oggettivamente ricca di talento).
Il Nobel non gliel' hanno dato mai...: valli a capire 'sti  (maschi) svedesi...

Si tratta di un passaggio in cui ho pianto, rabbiosamente, perchè mi scatenava violenta emozione, pur non rappresentando, nel complesso del romanzo, uno degli apici di commozione. La verità è che qui sotto ho sentito il suo alter-ego autentico, che assomigliava terribilmente al mio, ed ho "toccato" un' affinità, tragicamente dolorosa, come una ferita antica, eternamente sanguinante.
Ecco: lì ho ripreso contatto, per un attimo, con il vero Sacro, scoprendo che non è perduto, che ancora respira ed aleggia sul mondo e che il mondo, senza peraltro esserne consapevole, ne ha un estenuante ed incessante bisogno.
E così sarà -per forza-, fino alla fine del tempo.



fotografia di Charles C. Ebbets durante la costruzione del Rockefeller Center nel 1932


[pp. 579-580-581 /protagonista è qui Davide Segre, che rappresenta la coscienza intellettuale e problematica de "La Storia". Il monologo si svolge all' interno di un' osteria popolana, gli altri avventori, muti od intenti a giocare a carte, non lo interrompono, si scambiano qualche tacita occhiata, non tentano neppure vagamente di mitigare la sua solitudine.]

"... Io", rimasticò a voce bassa, "sono nato di famiglia borghese ... Mio padre era ingegnere, lavorava per una società di costruzioni ... alto stipendio ...

In tempi ‘normali’, oltre alla casa dove si abitava, noi si aveva, di proprietà di famiglia, una villa in campagna, col podere tenuto da un colono – un paio di appartamenti dati in affitto (che rendevano), – l’ automobile, si capisce (una Lancia) – più in banca non so che ‘azioni’ …” Terminato, con ciò, il proprio rendiconto finanziario, si arrestò, come dopo una fatica materiale. E poi, ripigliando, fece sapere che proprio là, in famiglia, lui fino da piccolo, aveva principiato a intendere i sintomi del male borghese: il quale sempre più lo rivoltava, al punto che talora, da ragazzo, allo spettacolo dei suoi parenti, lui veniva sorpreso da attacchi d’ odio: “”E non avevo torto!” precisò, riprendendo, nel passaggio di un attimo, la grinta del duro.

Quindi, ripiegato in avanti e con la voce ridotta a poco più che un mormorio, da sembrare una chiacchiera futile e spersa diretta al legno della tavola, si diede a varie sue riesumazioni di famiglia.

Che suo padre, per esempio, aveva tutta una scala di maniere diverse, anzi addirittura di voci diverse, a seconda che parlasse coi padroni, o coi colleghi, o con gli operai … Che suo padre e sua madre, senza nessun sospetto di offendere, chiamavano ‘inferiori’ i dipendenti; e anche la loro usuale cordialità verso costoro pareva sempre concessa come un’ elargizione dall’ alto … Le loro occasionali beneficenze o elemosine, in sostanza sempre insultanti, esse le chiamavano ‘carità’ … E parlavano di ‘doveri’ a proposito di ogni sorta di quisquilie mondane: quali restituire un pranzo, o una visita noiosa, o mettersi in tale occasione la tale giacca, o ‘farsi vedere’alla tale mostra, o cerimonia insulsa … I soggetti delle loro conversazioni e discussioni erano, più o meno, sempre i medesimi: pettegolezzi di città o di parentela, speranze di successi carrieristici dei figli, acquisti opportuni o indispensabili, spese, redditi, cali o rialzi … Però se al caso toccavano soggetti ELEVATI come la Nona di Beethoven, o Tristano e Isotta o la Cappella Sistina, assumevano una posa di sublimità speciale, quasi che pure simili ELEVAZIONI fossero privilegi di classe …

L’ automobile, i vestiti, i mobili di casa, essi non li guardavano per oggetti d’ uso, ma per bandiere di un ordine sociale …

Uno dei suoi primi urti –o il primo, forse?- lui non ha mai potuto scordarlo … “Dovevo avere, dieci anni, undici … Mio padre mi accompagna con la macchina, probabilmente a scuola (è mattina presto), quando sulla strada è costretto a una frenata brusca. Un tale ci ha bloccato, non di prepotenza, anzi con l’ aria di scusarsi. A quanto si è capito, si tratta di un operaio, licenziato, il giorno prima, da un cantiere, per diretto intervento –sembra- di mio padre. I motivi, non li ho mai saputi… E’ un uomo non ancora vecchio (sulla quarantina), ma con qualche filo grigio nei sopraccigli; di statura media, non grosso, ma forte, così che pare più alto … Ha una faccia larga, e i tratti solidi, però rimasti un po’ infantili come in certi tipi delle nostre parti … Porta una giacchetta d’ incerato e un berrettino basco, con qualche macchia di calcina, si vede che è muratore. Dalla bocca a ogni parola gli escono i vapori del fiato (dunque il fatto dev’ essere capitato di pieno inverno) … E sta lì che si sbraccia a voler dire le sue ragioni, cercando di sorridere perfino, per ingraziarsi mio padre. Ma invece mio padre non lo lascia neanche parlare, urlandogli contro, gonfio di collera: “Come ti permetti! Non una parola! Fatti da parte! Via! Via!” Sul momento mi sembra di scorgere un sussulto sulla faccia di quell’ uomo; mentre già, di dentro, tutto il sangue ha preso a martellarmi in un desiderio, anzi volontà sfrenata: che quell’ uomo reagisca coi pugni, magari col coltello, contro mio padre! Ma invece colui si scansa verso l’ orlo della strada, anzi addirittura porta la mano al baschetto per un saluto, mentre già mio padre, furente, a rischio d’ investirlo, ha premuto l’ acceleratore … “Dovrebbe nascondersi! Gentaglia! Teppa!” inveisce ancora mio padre; ed io noto che, nella rabbia, la carne, fra il mento e il colletto, gli fa delle pieghe rossastre, volgari … In quell’ uomo, invece, rimasto sulla strada, non ho visto nessun segno di volgarità. Allora mi ha preso uno schifo, di trovarmi dentro alla Lancia con mio padre, peggio che se fossi sul carretto della gogna; e ho avuto la percezione che in realtà noi, e tutti i nostri pari borghesi, eravamo la teppa del mondo, e che quell’ uomo rimasto sulla strada, e i suoi pari, erano l’ aristocrazia. E chi, difatti, se non un essere nobile, di reale dignità, e immune di ogni bassezza e frode, potrebbe trovarsi ancora, all’ età di quell’ uomo, a dover pregare umilmente un suo coetaneo per offrirgli la propria fatica in cambio di …”

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