Ho smesso ormai da tanto tempo
di fissare le foto ed aspettare che mi
sorridano, o mi parlino.
Dopo la morte di mio padre –
ed ormai son trascorsi vent’anni - ne avevo consumato con gli occhi l’immagine, con l’assoluta certezza di
trasfondere così interi pezzi della mia
anima – che immaginavo gassosa e di forma sinusoidale -, straziata dalla perdita,
in preda alla frustrazione dell’irreparabile assenza.
Aspettavo ed aspettavo un
cenno di presenza, una qualsiasi risposta di rimando a quello sforzo di volontà
immane e caparbio.
Le pagine del mio grosso
quaderno di pergamena, spesse e dai bordi frastagliati, avevano accolto
migliaia di parole-gancio, con le quali ero pateticamente decisa a trattenerlo a forza nel mondo dei vivi.
E’ amaro, sempre, toccare con
mano l’irrilevanza sostanziale della nostra volontà di incidere e stravolgere
le realtà a noi superiori.
Se l’esperienza insegna e
costringe a modificare i comportamenti, l’indole rimane inalterata: alla minima
distrazione si ricompone e si manifesta nelle sue originarie caratteristiche.
Così, ogni qualvolta qualcuno
che amo - o per me significativo -
muore, io, d’istinto, ne ricerco qualche effigie da scrutare (stavolta senza
confessarmelo apertamente)
nell’illusoria reiterata speranza di non permettere che il filo
invisibile del pensiero e della memoria lo distacchino irrimediabilmente dalla
mia vita.
Sempre subentra il rimpianto
di non aver detto o fatto tutto ciò che avrei potuto, o dovuto, prima.
Non c’è altro modo di
sconfiggere l’effimero se non trovando il coraggio di amare, di dire, di essere
per tempo quel che si deve, in quel preciso e fuggevole momento.
Persi nelle infinite nostre
necessità di trascendenza viviamo sorvolando con ali d’ignavia la nostra stessa vita.
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