lunedì 15 luglio 2013

Le altre morti


Ho smesso ormai da tanto tempo di fissare le foto  ed aspettare che mi sorridano, o mi parlino. 

Dopo la morte di mio padre – ed ormai son trascorsi vent’anni - ne  avevo consumato con gli occhi  l’immagine, con l’assoluta certezza di trasfondere così  interi pezzi della mia anima – che immaginavo gassosa e di forma sinusoidale -, straziata dalla perdita, in preda alla frustrazione dell’irreparabile assenza.

Aspettavo ed aspettavo un cenno di presenza, una qualsiasi risposta di rimando a quello sforzo di volontà immane e caparbio.

Le pagine del mio grosso quaderno di pergamena, spesse e dai bordi frastagliati, avevano accolto migliaia di parole-gancio, con le quali ero pateticamente decisa a  trattenerlo a forza  nel mondo dei vivi.

E’ amaro, sempre, toccare con mano l’irrilevanza sostanziale della nostra volontà di incidere e stravolgere le realtà a noi superiori.

 

Se l’esperienza insegna e costringe a modificare i comportamenti, l’indole rimane inalterata: alla minima distrazione si ricompone e si manifesta nelle sue originarie caratteristiche.

 

Così, ogni qualvolta qualcuno che amo  - o per me significativo - muore, io, d’istinto, ne ricerco qualche effigie da scrutare (stavolta senza confessarmelo apertamente)  nell’illusoria reiterata speranza di non permettere che il filo invisibile del pensiero e della memoria lo distacchino irrimediabilmente dalla mia vita.

 

Sempre subentra il rimpianto di non aver detto o fatto tutto ciò che avrei potuto, o dovuto, prima.

 

Non c’è altro modo di sconfiggere l’effimero se non trovando il coraggio di amare, di dire, di essere per tempo quel che si deve, in quel preciso e fuggevole momento.

Persi nelle infinite nostre necessità di trascendenza viviamo sorvolando con  ali d’ignavia la nostra stessa vita.

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