martedì 7 dicembre 2010

Simone Weil -3-: la pensatrice più affascinante del Novecento. Santa laica e rivoluzionaria. Una politica “poetica”. "La prima radice"

(segue dal post -1- pubblicato in data 3/12/2010 e -2- pubblicato in data 6/12/2010 con le stesse etichette. Tra parentesi quadre, mie brevissime riflessioni estemporanee. Virgolettate le citazioni integrali del testo.)


La lista dei bisogni essenziali dell’ anima prosegue, ed ognuno è logicamente connesso all’ altro. Ecco, perciò, che dopo l’ Onore - citato al punto 7*e la cui descrizione termina considerando che soltanto il delitto può situare fuori della considerazione sociale chi lo ha commesso- ,segue, come bisogno di reintegrazione,


8* la Punizione.

La Weil opera una distinzione tra la punizione disciplinare e quella penale, e sottolinea che quella indispensabile all’ anima umana è la punizione del delitto, perché, compiendo quest’ ultimo, l’ uomo si pone al di fuori della rete degli “obblighi eterni” che rendono coesi gli esseri umani.

A chi soffre la fame bisogna dare da mangiare ed, allo stesso modo, a chi si pone da sé fuori dalla Legge è necessaria la punizione che, sola, può reintegrarlo nella collettività.

[Osserviamo in questi tempi l’ odioso e vergognoso tentativo di esponenti della nostra classe dirigente (fatto di amplificata gravità, riguardando figure istituzionali tenute a fornire esempi ineccepibili) di eludere questo elementare meccanismo attraverso picaresche manovre sulla Giustizia: legittimo impedimento e processo-breve sono escamotage per evitare eventualmente le meritate punizioni]

“ La soddisfazione di questo bisogno esige innanzitutto che quanto riguarda il diritto penale abbia un carattere solenne e sacro; che la maestà della legge si comunichi al tribunale, alla polizia, all’ accusato, al condannato, e che questo avvenga persino nei casi poco importanti, purché comportino privazione di libertà. Occorre che la punizione sia un onore, che non solo cancelli la vergogna del delitto, ma venga considerata un’ educazione supplementare a essere maggiormente devoti al pubblico bene.”

Simone è aspra e durissima nel suo pensiero; non concede alcuno sconto né attenuante perché è fermamente convinta che il sistema penale deve destare in chi delinque il sentimento della giustizia. Neppure vagamente si pensi alla punizione come sedativa dell' ansia di vendetta della società. Conosce perfettamente anche il pericolo che si stabilisca, nelle alte sfere, una cospirazione volta ad ottenere impunità. Per questo, dichiara: “Può essere risolto soltanto se uno o più uomini hanno l’ incarico di impedire tale cospirazione e si trovano in una condizione tale da non essere tentati di farlo.”

9* La libertà di opinione.

Per Simone Weil esso corrisponde ad un bisogno assoluto per l’ intelligenza e, conseguentemente, dell’anima, la quale prova sofferenza quando l’ espressione dell’ intelligenza viene ostacolata.

In un’ anima sana l’ intelligenza si esercita in tre diversi modi, di volta in volta caratterizzati da gradi di libertà diversa. Esiste un’ intelligenza applicabile a problemi tecnici, che cerca mezzi per il perseguimento di uno scopo prefissato; una che fornisce chiarimenti di volontà nel compimento di scelte; ed una puramente teorica e non indirizzata a materia pratica.

Applicando la sua teoria filosofica dell’ intelligenza ad una società utopizzata sana, S.W. auspica, nel campo della stampa, una riserva di libertà assoluta, ma condotta in modo tale che ciò che si pubblica non coinvolga per nessuna ragione l’ autore e non contenga alcun consiglio per chi legge.

Voglio porre nuovamente l’ accento sul momento storico in cui la filosofa operava: siamo a cavallo di due conflitti mondiali. Le pubblicazioni destinate ad influire sull’ opinione pubblica, costituiscono veri e propri atti ed, in quanto tali, devono essere sottoposti allo stesso giudizio, ed eventuali restrizioni, cui tutti gli altri atti vengono sottoposti.

“In altre parole, esse non devono recare alcun danno illegittimo a qualsiasi essere umano, e soprattutto non devono contenere alcuna negazione, esplicita od implicita, degli obblighi eterni verso l’ essere umano, dal momento che questi obblighi sono stati solennemente riconosciuti dalla legge.”

In estrema sintesi, e per necessità di semplificazione del sottilissimo pensiero weiliano, possiamo affermare che Simone distingue nettamente la libertà di opinione del singolo autore, che dev’ essere illimitata, da quella del gruppo (stampa quotidiana, settimanali, riviste), in quanto necessariamente centri di irradiazione di determinati punti di pensare.

Si spinge ad estendere questo suo assunto fino alla letteratura. “Nella vita morale del paese il posto che un tempo era occupato dai preti apparteneva a fisici e romanzieri, fatto, questo, sufficiente a mostrare il valore del nostro progresso. Ma se gli scrittori dovessero render conto dell’ orientamento della loro influenza, essi si rifuggerebbero indignati dietro il sacro privilegio dell’ arte per l’ arte.”

Il bisogno stesso di libertà, essenziale per l’ intelligenza, esige una protezione contro la propaganda, l’ ossessionante influenza, la suggestione.
[... la televisione, poi...]

“Tutti i problemi concernenti la libertà d’ espressione si chiariscono, in genere, quando si sia stabilito che quella libertà è un bisogno dell’ intelligenza e che l’ intelligenza risiede soltanto nell’ essere umano, individualmente considerato. L’ intelligenza non può essere esercitata collettivamente.”

Simone Weil, nella sua fiera ed audace lucidità, si spinge ad affermare che proprio la libertà di pensiero esigerebbe di dover vietare l’ espressione di opinioni da parte di un gruppo, perché un gruppo tende inevitabilmente ad imporle ai suoi membri, che, presto o tardi e più o meno gravemente, si troveranno impediti nell’ espressione di idee opposte o diverse.
“ L’ intelligenza è vinta quando l’ espressione dei pensieri è preceduta, implicitamente od esplicitamente, dalla paroletta noi” .

Come immediata soluzione pratica ella proponeva l’ abolizione dei partiti politici.
[Utopia eccelsa. Immaginiamo quale enorme rientro di risorse per la collettività? Una vita pubblica senza i partiti! Un sollievo, aria pulita e fresca. Non più la putredine di interessi e fame di potere cui oggi assistiamo…]

Sulle reminescenze del Contratto Sociale di Rousseau, in cui egli aveva chiaramente dimostrato che la lotta tra i partiti uccide la democrazia, S.W. osserva che una democrazia che veda ridotta la vita pubblica alla lotta tra i partiti politici [ma nel nostro Paese ci siamo quasi…] non potrebbe impedire neppure l’ avvento di un partito in grado di distruggerla.

In conseguenza di queste riflessioni la filosofa prospetta la distinzione tra due specie di raggruppamenti:

1. quelli di interessi , che dovrebbero essere organizzati e disciplinati (esempio organizzazioni operaie che si occupano dei salari e simili);

2. quelli di idee, che, invece, non dovrebbero esserci.

Interessantissime tutte le riflessioni, ampiamente articolate, che la Weil fa sui sindacati e sulle loro possibilità di espressione ed azione. Per esse, rimando alla lettura analitica ed integrale del testo, per ovvie ragioni di spazio.

“Quanto alla libertà di pensiero, si dice in genere il vero quando si afferma che senza di essa non vi è pensiero. Ma è ancor più vero dire che quando il pensiero non esiste non è libero. Nel corso degli ultimi anni c’ è stata molta libertà di pensiero, ma non c’ era pensiero. E’ pressappoco la situazione del bambino che, non avendo carne nel piatto, chiede il sale per salarla.”

[Esiste un ragionamento più attuale di questo, per noi cittadini ed individui occidentali del nuovo millennio?]

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6 commenti:

  1. Devo confessare che non la sopporto e me ne sono anche fatto una ragione. Possiamo basare il pensiero sulle evidenze esterne, modellandole con gli strumenti condivisi della logica, e sottoponendone i faticosi modelli alla difficile verifica dell'esperienza. Ce n'è abbastanza per migliaia di vite. O possiamo basare il pensiero sulle nostre evidenze interne, sui sentimenti, sulle intuizioni "mistiche" che si formano in noi, in base alla nostra irriducibile ed inattingibile (agli altri) esperienza. E qui siamo nell'ambito della poesia e dell'arte, ovvero - almeno in linea di principio - dell'assenza di costrittività: se l'altro non avverte le stesse nostre fascinazioni estetiche è evidentemente perché è formato (dal dna, e dalla vita) diversamente, e in questo non vi sarà nulla di scandaloso.
    Si tratta di modalità di pensiero assai diverse, complementari, anzi ortogonali, che possono e devono convivere. Ma non devono frammischiarsi. Trovo assurdo ed irritante il costruire cattedrali di esattezza logica sopra le fondamenta, arbitrarie e oscure di un sentimento, pretendendo implicitamente che queste traggano portanza dalla "precisione" dei concatenamenti soprastanti. Questo è ciò che fa anche la Weil, ciò che fa la teologia, ciò che fa moltissima "filosofia". Non si butta via niente, beninteso, però non posso fare a meno di considerarla, con Borges, "letteratura fantastica".

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  2. Ciao Elio, benvenuto.
    Sono profondamente in sintonia con queste tue riflessioni in generale: le trovo estremamente lucide ed intellettualmente oneste.
    Il mio rapporto con la Weil, infatti, è senz' ombra di dubbio dualistico e mi costringe a più di una "frattura", con decisa dissociazione ideale, soprattutto laddove lei lascia completamente la sua iniziale concentrazione politica per approdare ad una mistica religiosa che, quantunque rivoluzionaria ed a suo modo altissima, erige ciò che tu -con espressione estremamente appropriata- definisci cattedrale di pensiero.
    E' esattamenente per questo motivo che la mia attenzione si concentra sulla Weil rivoluzionaria anarco-socialista, attenta osservatrice della realtà del suo tempo -della condizione dei lavoratori oppressi, degli effetti devastanti delle due guerre, dei rapporti tra le classi sociali- e sulle sue proposte teoriche, ma anche pratiche e logistiche.
    Alcune delle sue intuizioni politiche mi appaiono straordinariamente lucide e geniali, la sua capacità di interpretare il suo tempo, estremamente coraggiosa. Ho stima per la sua perfetta identificazione tra etica e vita, tra idea ed azione.
    C' è un dubbio cruciale, però, nel quale rimango arenata: è così vero che -come lei suppone- l' Uomo ha un bisogno primario di Bene?

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  3. Ad istinto direi di sì. Su questo punto mi persuase molto, in passato, l'Erik Fromm dell'"Anatomia della distruttività umana", che inquadra il male come un risposta vitale ma distorta a percorsi di sviluppo essenzialmente sfortunati.
    E'un piacere seguire queste tue trattazioni.
    Ciao

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  4. Piacevolmente marxista, questo tuo richiamo, ma se Kant avesse avuto ragione a pensare ad un Radical Bose, quel Male che fa parte della natura stessa dell' uomo?
    I cavillosi metafisici :-), invece, sono tutti d' accordo, in un modo o nell' altro, antichi e moderni (che dagli antichi attingono), a ritenere l' Uomo naturalmente inclinato al Bene, ma irretito dal male per ignoranza. Platone:" Perché malvagio nessuno è di sua volontà, ma lo diviene per qualche prava disposizione del corpo e per un allevamento senza educazione, ... e queste cose gli capitano contro sua voglia". Il bene è piacevole di per sé -secondo Socrate- e nel Male si incorre per errore, perché lo si confonde con il suo contrario.
    Dico io: troppo, troppo comodo, così tutti sono assolti, anche i mafiosi che sciolgono i bambini nell' acido. No, non vorrei accordare troppi alibi...
    C' è la responsabilità della scelta,c' è la ragione, noi siamo liberi di optare per essere questo o quello: non esiste una laurea specialistica in virtù.
    Mi prude un altro post-mattone, ahinoi...
    Ciao Elio, e grazie.

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  5. Qui tocchi un punto essenziale.. se provo ad immaginarmi di essere il mafioso che ha sciolto il bambino nell’acido, beh, riesco a immaginarmi un percorso “infernale” che, a colpi di paura, ti prosciughi ogni pietà, lasciandoti dominato da una dura ferocia, da un organo ipertrofico dell’odio (che “serve”, eccome, altrimenti l’evoluzione non lo avrebbe mantenuto con tanta cura). Credo sia possibilissimo arrivarci, anche attraverso quella sorta di educazione alla durezza che si rinviene in molte sottoculture. Così uno che magari continua a ritenersi una persona “normale” un poco alla volta perviene alla soppressione (se non già presente per accidente biologico) delle inibizioni fondamentali, ed opera mostruosità. Penso che quando uno arriva a queste cose debba in qualche modo odiare profondamente anche se stesso (anche se ci rimane aggrappato attraverso gli istinti ciechi della sopravvivenza) e l’esistenza stessa. Ecco, in un tale desolante scenario, quale senso assume il “giudizio”, ovvero il rinfacciamento - da parte di chi è diverso - di “responsabilità”, rivolto ad un deficiente, nel senso più vero del termine. Questo non vuol dire affatto scagionare o perdonare il colpevole, ma piuttosto “rifarsi” su di esso con una certa costernazione, come quando si uccide un cane rabbioso, che non ha in fondo colpa nell’agire in balia di un virus che gli devasta il cervello. Così io la vedo, come uno sviluppo andato terrificantemente a male, cioè come una disgrazia come tante altre, in un mondo che le incorpora “by design”. E’ la “plasticità” pervasiva della vita, fattore evidentemente necessario alla vita stessa, che va a frugare in tutte le combinazioni, anche quelle combinazioni disgraziate, pur di sopravvivere un altro po’.

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  6. E' estremamente verosimile, Elio, la tua ipotesi, e tristemente suffragata dalla Storia. Penso -solo per rimanere nel Novecento- anche a ciò che il nazionalismo nazi-fascista ha saputo fare -ad esempio- di un' intera generazione di giovani: lo scempio delle coscienze, un plagio immane, la semina di sentimenti di odio cieco, la legittimazione dello sterminio.

    Ma come sono numerosi gli esempi, dall' inizio dei tempi...
    M' immagino tribù di Australopitechi che piombano in territori da altre pacificamente occupati e vedo il sangue del massacro, le efferatezze, la paura e l' odio. Non "incidente di sviluppo", ma necessario percorso della sopravvivenza, indissolubile dalla crudeltà dei mezzi. Vita e Morte, immagini flash del più ampio quadro della Natura.

    Poi, sono sorti i tabù, necessariamente, comprensibilmente, ed intanto, ancora, eccoci "Sapiens-Sapiens", padroni della tecnica e della Scienza, con alle spalle Letteratura, Filosofia, Teologia, memoria e ricordi ancestrali.

    C' è un "male" che non ha scusanti: è quello dell' uomo occidentale moderno che, perfino quando le sue condizioni sono talmente sfortunate da renderlo un paria, ultimo tra gli ultimi, non può dirsi totalmente estraneo al sentore della cultura comune che permea la società in cui è inserito, più o meno felicemente. Avrà anche una seppur vaga idea del Dio che abita la religione coesiva del suo Paese, saprà qualcosa del cieco Omero, si renderà conto d' esser cittadino di uno Stato -che di riffa o di raffa ha qualche "regoletta" da rispettare, se non da condividere-, e via così: che sciogliere i bambini nell' acido lo conduca diritto fuori dall' ambito dell' Umano, gli sarà chiaro, chiarissimo. Ecco che egli, il Male lo ha scientemente voluto, come la più facile delle opzioni e con scherno del Bene, come l' odioso Provenzano che comanda i suoi apostoli assassini attraverso i pizzini tratti dalle pagine della Bibbia.

    Ecco: sì, siamo costernati.
    Ma non riesco ad esercitare la compassione.

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