Si reincontravano, fatalmente, ogni sette anni, senza alcuna intenzionalità ed in modo del tutto casuale, e le conseguenze di simile fortuità, ogni volta, modificavano le loro rispettive vite, che proseguivano poi separate e senza alcun rapporto né ulteriore contatto.
Lei era una donna capace, o preda, di una impietosa razionalità, e nel contempo spregiudicata genitrice -ed anzi abile tessitrice- di suadenti e coinvolgenti sogni atti a fornire salvifica alternativa alla sua stessa, ed altrui, mortificante e normo-squallida quotidianità metropolitana.
Di conseguenza, non era possibile per alcuno 'resisterle': risorgendo direttamente dal nero pozzo del suo dolore umano e della sua perplessa e contraddittoria bramosìa del vivere, i suoi immaginari allestimenti in potente alternativa alla noia d' essere -fatti d' amor maschio e cortese ed eroica leggiadria-, erano un canto di sirena per stanchi viandanti ormai dimentichi di sé e dell' infantile inconsapevole abilità di salvarsi nelle coerografie parallele del sogno.
"Sette: ha del pitagorico" s' accorse lei, più tardi, senza crederci troppo.
"Numero esoterico, in effetti, secondo chi ha bisogno vitale di trascendere l' implacabile uggiosa realtà e l' impermeabile, liscia, fredda superficie della normale vita che ci è dato vivere." cominciava a voler convincersi.
" Sette i giorni della Creazione e della settimana; sette i Chakra; sette il numero della mia personalità associata alla ricerca interiore; di Urano; della contemplazione, ma anche dell' episteme; sette le volte che mi si deve impercettibilmente deludere prima che me ne vada per sempre. Sette è il mio numero. Il mio, che sono duale..." continuava, titillando il pensiero. "Ma io a queste corbellerie fantastiche ed esoteriche non posso proprio credere."
La prima volta della sequenza che si rividero fu un settennio dopo la conclusione dei primi studi superiori. Lei appena sposata, lui in procinto di farlo con la fidanzata ufficiale.
Un' occasione un po' banale: la cena dei coscritti, cui lei aveva partecipato soltanto per via delle insistenze dell' invito, un misto di curiosità per le vite degli altri, e, molto probabilmente ma inconsapevolmente, a causa di un suo certo qual malessere , molto vicino all' infelicità, che la sua fresca condizione matrimoniale le aveva rivelato.
Lui, invece, partecipava sempre a qualunque cosa. Così, giusto per esserci. Essere tra altri. Ecco: per lui ESSERE era sempre CON, TRA, PER, IN RIFERIMENTO DE gli altri, ossia, la comunità.
E quest' ultimo elemento non è irrilevante, per comprendere gli sviluppi della storia.
Ma dopo l' insulsa cena ed i saluti frettolosi alla compagnia, in tre si attardarono sul piazzale del ristorante a chiacchierare ancora un po', per poi accorgersi, trascorse altre due ore al freddo notturno di quel sabato di febbraio, che non riuscivano a congedarsi. Erano lei, lui, ed un terzo che aveva subodorato la situazione e li amava entrambi, o forse, essendo questi un prete-laico ed essendosi innamorato infelicemente di lei da ragazzino sui banchi di scuola, sperava di poter bloccare, un po' per dover sacro ed un po' per nostalgico egoistico attaccamento al suo antico sentimento, l' imminente inesorabile uragano che già rumoreggiava all' orizzonte.
Nei giorni seguenti l' uragano si scatenò con inaudita violenza: bastò una settimana di ritorno alle consuetudini, perchè la distanza si rendesse crudele ed intollerabile e lui le dichiarasse, al telefono, "Ti amo da morire. Letteralmente, sento che ne morirò."
* Ma c' è qualcosa di più assurdo di questo?
Cos' è che ci fa apparire così profondamente nobile e romantico il morire d' amore?
E cos' è amare se non ambire all' annullamento, al sollievo di liberarsi, finalmente, dall' immane peso di condurre questo nostro 'sé', gravoso opprimente vigliacco, troppo a noi appresso lungo l' intera nostra esistenza?*
Così, tutto fu spazzato via, nel vortice cieco di quella che si rivelò un' illusione e che ora, ragionandoci, pare un disegno del destino, perché non c' è nulla che a noi umani necessiti più dell' astrazione, della narrazione, del simbolo.
*Ma il destino è una favola, un alibi, un pretesto.
Ed invece sono le azioni degli uomini a determinare la loro storia. Sono il loro coraggio, la loro ignavia, la loro forza o la loro fragilità a forgiarlo e determinarlo. Noi siamo condannati alla libertà.*
Lei lasciò suo marito, lui lasciò la fidanzata.
Si guadagnarono entrambi la riprovazione dei congiunti, dei loro ascendenti, di un po' di società.
Lei se ne andò con una valigia d' abiti, senza alcuna pretesa ulteriore, senza cose né desiderio di vantar crediti, trascinando con sé la frustrazione di non poter evitare il dolore di chi pensava di amarla ma nella più completa inconsapevolezza l' aveva già cento volte ferita.
Ebbe modo così di accedere a molte rivelazioni. Vide senza veli tutta la misoginia repressa del proprio padre, il formalismo un po' miserabile di sua madre, l' abilità nel freddo calcolo economico dell' uomo che aveva lasciato ma che, ciononostante, la chiamava piangendo la sua solitudine.
*la vita del marito, poi, andò molto bene. Si riassettò, non prima d' essersi concesso un paio d' anni di spensierato edonismo, con qualche caduta di stile, e si costruì una famiglia finalmente 'affidabile'. Naturalmente 'per sempre', come si usa tra coloro che sanno rendere fissa e sicura la propria vita attraverso istituti, formule, contratti, schemi.*
C' era un amore da vivere, c' era "la favola bella che ieri c' illuse, che oggi ci illude", a consolarla.
Sì, lei credeva d' averne pieno diritto. pensava che ne avessero diritto tutti, purché agissero in chiarezza, in onestà, per quanto fossero costate.
Trascorsero quattro mesi, nel corso dei quali il suo nuovo compagno non fece che piangere sulla sua spalla. Piangeva per il senso di colpa d'aver lasciato la fidanzata ufficiale, che, poverina, era depressa; piangeva perché la sua vita s' era complicata; piangeva perché i suoi ce l' avevano con lui; piangeva perché pensava all' altro, che lei aveva lasciato; piangeva perché la passione vitale di lei lo bloccava anche nell' intimità. E "fondeva". "Sono fuso", diceva, e, subito dopo, si rinchiudeva in casa per "guarire" da quel malanno che non conosce cura e che si chiama viltà. Poi, passata la crisi, la chiamava piagnucolando. "Ti amo da morire. Senza di te muoio"
Lei lo lasciò definitivamente, all' inizio dell' estate.
Volle trattenere una canzone, perché fissava un momento, forse l' unico perfetto in tutta quella sequenza passata di mortificanti disillusioni. Non si può, non si può amare alla pari chi ci ispira mesta compassione, né chi risponde al nostro iniziale eroismo con la sola offerta di fragilità e debolezza.
Poi, trascorsero altri sette anni, e ...
(segue, forse...)
Lui, invece, partecipava sempre a qualunque cosa. Così, giusto per esserci. Essere tra altri. Ecco: per lui ESSERE era sempre CON, TRA, PER, IN RIFERIMENTO DE gli altri, ossia, la comunità.
E quest' ultimo elemento non è irrilevante, per comprendere gli sviluppi della storia.
Ma dopo l' insulsa cena ed i saluti frettolosi alla compagnia, in tre si attardarono sul piazzale del ristorante a chiacchierare ancora un po', per poi accorgersi, trascorse altre due ore al freddo notturno di quel sabato di febbraio, che non riuscivano a congedarsi. Erano lei, lui, ed un terzo che aveva subodorato la situazione e li amava entrambi, o forse, essendo questi un prete-laico ed essendosi innamorato infelicemente di lei da ragazzino sui banchi di scuola, sperava di poter bloccare, un po' per dover sacro ed un po' per nostalgico egoistico attaccamento al suo antico sentimento, l' imminente inesorabile uragano che già rumoreggiava all' orizzonte.
Nei giorni seguenti l' uragano si scatenò con inaudita violenza: bastò una settimana di ritorno alle consuetudini, perchè la distanza si rendesse crudele ed intollerabile e lui le dichiarasse, al telefono, "Ti amo da morire. Letteralmente, sento che ne morirò."
* Ma c' è qualcosa di più assurdo di questo?
Cos' è che ci fa apparire così profondamente nobile e romantico il morire d' amore?
E cos' è amare se non ambire all' annullamento, al sollievo di liberarsi, finalmente, dall' immane peso di condurre questo nostro 'sé', gravoso opprimente vigliacco, troppo a noi appresso lungo l' intera nostra esistenza?*
Così, tutto fu spazzato via, nel vortice cieco di quella che si rivelò un' illusione e che ora, ragionandoci, pare un disegno del destino, perché non c' è nulla che a noi umani necessiti più dell' astrazione, della narrazione, del simbolo.
*Ma il destino è una favola, un alibi, un pretesto.
Ed invece sono le azioni degli uomini a determinare la loro storia. Sono il loro coraggio, la loro ignavia, la loro forza o la loro fragilità a forgiarlo e determinarlo. Noi siamo condannati alla libertà.*
Lei lasciò suo marito, lui lasciò la fidanzata.
Si guadagnarono entrambi la riprovazione dei congiunti, dei loro ascendenti, di un po' di società.
Lei se ne andò con una valigia d' abiti, senza alcuna pretesa ulteriore, senza cose né desiderio di vantar crediti, trascinando con sé la frustrazione di non poter evitare il dolore di chi pensava di amarla ma nella più completa inconsapevolezza l' aveva già cento volte ferita.
Ebbe modo così di accedere a molte rivelazioni. Vide senza veli tutta la misoginia repressa del proprio padre, il formalismo un po' miserabile di sua madre, l' abilità nel freddo calcolo economico dell' uomo che aveva lasciato ma che, ciononostante, la chiamava piangendo la sua solitudine.
*la vita del marito, poi, andò molto bene. Si riassettò, non prima d' essersi concesso un paio d' anni di spensierato edonismo, con qualche caduta di stile, e si costruì una famiglia finalmente 'affidabile'. Naturalmente 'per sempre', come si usa tra coloro che sanno rendere fissa e sicura la propria vita attraverso istituti, formule, contratti, schemi.*
C' era un amore da vivere, c' era "la favola bella che ieri c' illuse, che oggi ci illude", a consolarla.
Sì, lei credeva d' averne pieno diritto. pensava che ne avessero diritto tutti, purché agissero in chiarezza, in onestà, per quanto fossero costate.
Trascorsero quattro mesi, nel corso dei quali il suo nuovo compagno non fece che piangere sulla sua spalla. Piangeva per il senso di colpa d'aver lasciato la fidanzata ufficiale, che, poverina, era depressa; piangeva perché la sua vita s' era complicata; piangeva perché i suoi ce l' avevano con lui; piangeva perché pensava all' altro, che lei aveva lasciato; piangeva perché la passione vitale di lei lo bloccava anche nell' intimità. E "fondeva". "Sono fuso", diceva, e, subito dopo, si rinchiudeva in casa per "guarire" da quel malanno che non conosce cura e che si chiama viltà. Poi, passata la crisi, la chiamava piagnucolando. "Ti amo da morire. Senza di te muoio"
Lei lo lasciò definitivamente, all' inizio dell' estate.
Volle trattenere una canzone, perché fissava un momento, forse l' unico perfetto in tutta quella sequenza passata di mortificanti disillusioni. Non si può, non si può amare alla pari chi ci ispira mesta compassione, né chi risponde al nostro iniziale eroismo con la sola offerta di fragilità e debolezza.
Poi, trascorsero altri sette anni, e ...
(segue, forse...)
Mai che si dica "T'amo da vivere".
RispondiEliminaForse perché, in fondo, quasi sempre, si cerca nell'altro un sepolcro per le proprie incompletezze, insicurezze, un cuore capiente dentro il quale seppellire l'antipatia per se stessi.
Poi quell'antipatia, inesorabilmente, germoglia nel cuore altrui, tutt'altro che morta.
E allora, chi non è capace d'amarsi, finisce con l'odiarsi nella persona dentro la quale sperava tanto di poter morire per sempre.
L'amore dovrebbe essere un traboccare di vita, una felicità così pressante da non poter fare a meno di fluire in un'altra persona.
Purtroppo troppo di frequente si confonde con l'amore l'egoismo, un traboccare di morte col quale impestiamo gli altri, essendo così paurosi eppure senza cuore da non saper scegliere la solitudine.
Così cerchiamo qualcuno da amare da morire, per obbligarlo a condividere il nostro fardello irrisolto.
Mi hai offerto una bella lettura.
E pure una bella canzone, sebbene prima di visionare chi fossero, ho subito pensato a Sound of Silence. Poi ho scoperto di aver cannato la canzone, ma almeno azzeccato i menestrelli.
@ Kisciotte
RispondiElimina"Ti amo da morire": non c' è dichiarazione che mi appaia più paradigmatica della psicologia umana.
In noi esistono -o io le riconosco in me- pulsioni di vita e pulsioni di morte.
Forse in tutti? Non lo so, dimmelo tu, amerei saperlo, per quel che riguarda te, se ti va di parlarne.
Nell' attimo più alto del piacere (pensaci) l' idea della morte non spaventa: diventa irrilevante, cioè anche potenzialmente possibile senza alcuna destabilizzazione. Si vuole naufragare nell' altro, almeno per un attimo, pur nel pericolo d' affogare.
Forse quel "da morire", rinvia ad una nostalgia di pace, di riposo, di dolce estinzione anziché violenta distruzione.
Allora, desiderare di amare in quel modo, forse è anche desiderio di dimenticanza di sé. Forse, quando esplode, l' amore è sempre così: voglia di trascendenza. Può essere che non ci riesca di fare meglio di così, data la nostra incurabile imperfezione...
Nella storia (molto vera), però, lui non sapeva amare né da morire né da vivere -che è cosa che comunque obbligava ad un' uscita da sé-: lui voleva mantenere prudenzialmente il suo miserabile tutto . Un ignavo non saprà mai darsi interamente, se non per la breve durata di una canzone, che si conclude in dissolvenza.
-Se "For Emily" ti è piaciuta, caro Kisciotte, permettimi allora di dedicartela, e ringraziarti di questi tuoi graditi e per me importanti interventi.-
Mah, tutti è una categoria della quale diffido.
RispondiEliminaNell'istante che io non sono tutti, tutti cessa di esistere.
Per quel che riguarda me, provo a risponderti, seppur in maniera misera ed equivocabile, poiché le frasi della tua risposta sono molto belle e cariche di significati.
Per me esistono le stesse due pulsioni che esistono per te, di vita e di morte.
Provo a eludere il palpito dell'immortalità, che esiste per alcuni attimi, e mi concentro sull'amore di una vita, magari un attimo cosmico che quaggiù, da noi, dura quanto un'esistenza da condividere.
Penso che l'amore sia a esclusivo appannaggio dei mortali. In Paradiso tutto si può tranne che amare; come si può avere il patema della perdita, il batticuore della preziosità, quando l'immortalità rende ordinario l'eterno?!
"Ti amo da morire" come lo esprimi tu è bello.
Penso che siamo imperfetti, per la nostra natura mortale. E quel sentimento che col nostro istinto approssimativo chiamiamo "amore" ci illude di sospendere per un attimo lo scorrere del tempo e la nostra caducità in esso.
In questo senso, volersi annullare nel soggetto dei nostri desideri, essere disposti a dare la vita per lei/lui è l'essenza dell'amare.
Purtroppo, per quel che noto io, è labile lo spartiacque tra lasciarsi irretire e issare a bordo come un baccalà stracotto dal veliero dell'amata/o e lasciarsi naufragare perché incapaci di navigare sul proprio legno.
"Ti amo da morire" a volte significa anche: issa le vele anche per me, mentre io me ne sto qua dietro, sulla mia scialuppa distinta, a rimorchio alle tue fatiche. Troppe volte chi non ha coraggio per sé spera che sia l'amore a donarglielo. Ma Eros è tenuto a ben altre magie, non a tramutare vigliaccheria in passione.
Troppe volte un sentimento che dovrebbe essere d'altruismo si avvilisce in un atto di egoismo, ovvero nel fare un salto nel buio del vuoto di coscienza (spacciato erroneamente per amore) scommettendo che basterà un anello al dito a colmare delle carenze.
Poi magari una formula recitata non sortisce la magia, e sempre magari si rilancia sperando che basti una pancia gravida a ricomporre le incomprensioni.
Alla fine, come spesso ho constatato, l'unico risultato sono bambini piccoli con genitori separati. Ma forse l'amore non comporta il matrimonio, anche se spesso porta al concepimento.
Penso che uno più uno fa due, ma solo due interi possono formare una coppia. Ognuno con i propri limiti, le proprie diversità, ma a volte ci si aspetta che sia l'altra/o a ricomporre limiti individuali irrisolti, a dare integrità alle nostre crepe.
In questo momento della mia vita, amo di un amore che mi sussurra: "Amare è saper rinunciare, perché non sono in grado di tracimare gioia anche per te, e rischierei di usarti come stampella delle mie tristezze. Forse un giorno incontrerò una cura, anche al mio istinto di protezione. Per ora, amarti significa rinunciare a te. In silenzio."
Comunque, ripeto, il tuo "Ti amo da morire" ha quel bel significato col quale lo userei anch'io. Vale un "Ti amo da vivere". Altri sono i "Ti amo" che sanno di Thanatos in vita, non certo d'Eros fin oltre la morte.
Sì, mi è piaciuta e mi fa piacere che me la dedichi: sono eleganti entrambe, dedica e canzone.
Sono sempre chiacchierone, e ho pure straparlato. E a mezzanotte tutto torna zucca! :o) ufff!
@ Kisciotte
RispondiEliminaStraordinario, questo riconoscere con tanta sorprendente precisione un percorso e riflessioni che appartengono ad un' altra persona, di cui non si sa nulla, se non che vive e respira su questa Terra, ed in quanto umano ha perciò il privilegio -se potrà osare- di svelarne dolore, orrore ed incomparabile bellezza.
Quale volgare semplificazione, poi, confondere gli istituti sociali con le potenzialità di un' anima! No davvero: non è un contratto in grado di perfezionare l' amore. Semmai, più spesso, ne rivela i velleitari limiti. E la libertà interiore, che è innata dotazione universale degli umani, ha il solo scopo di consentirci l' immaginazione. Immaginazione: forse la sola chiave della nostra felicità...
Ma sto andando oltre il testo.
Un caro saluto, Cavaliere.
Vi amo da morire.
RispondiEliminaPochi è molto più che nessuno Morena, ci sono molti più umani che nessuno capaci di provare empatia, comprensione per i dolori, le gioie, le disillusioni di qualcuno del quale non si sa nulla, non si conosce la storia, ma che comunque è leggibile nella sua carica di umanità a chi proprio arido non è.
Questo blog con l'avvento di quel chiacchierone di Kisciotte mi piace ancor più.
@ giovanni
RispondiEliminaGiovanni caro, ciò che è raro è infinitamente più prezioso. La simbiosi di intelligenza e profondità del sentire, non soltanto autoreferenti, non guastate dall' auto-compiacimento, non superbe, è un tributo per sua stessa natura elettivo.
Tu e Kisciotte siete un valore aggiunto, qui, che scatena in me stima ed affetto veri.
Rimangono la frustrazione da virtualità - purtroppo-, l' assenza della pacca sulla spalla, la nostalgia di un sorriso diretto, ma ciò non riduce la bellezza dello scambio.
Grazie, sul serio.
@sirio59.mm
RispondiElimina@giovanni
Scrivo solo per dire che ti/vi ho letti fin qua.
Magari un dì capiterà di incontrarci, ma quel giorno voi parlate e io ascolto.
Che dal vivo finché non prendo confidenza io non sono un chiacchierone!
Poi mi disinibisco e allora mi dovrete imbavagliare.
:o)
Adesso vado a mettere un annuncio sulla mia homepage: "Dai valore aggiunto al tuo blog con i commenti prolissi di Kisciotte. Prezzi modici."
Saluto pure io, ok. Due pacche.