(tratto da un' analisi di Giuseppe Bedeschi)
"In memoria degli innumerevoli uomini, donne e bambini di tutte le credenze, nazioni o razze che caddero vittime della fede fascista e comunista nelle Inesorabili Leggi del Destino Storico.":
è questa la dedica, posta sul frontespizio dell' opera di Karl Popper The poverty of historicism pubblicata la prima volta su una rivista nel 1944-45.
Per Popper nella "società aperta", ovvero quella liberal-democratica, il fondamento non può essere soltanto il principio della maggioranza. Ciò può apparire piuttosto comprensibile se soltanto si considera che una maggioranza liberamente espressa dagli elettori attraverso il suffragio universale può essere antidemocratica ed illiberale: il nazismo giunse al potere con un' imponente seguito di massa.
La "società aperta" deve sapersi, dunque, difendere dai propri nemici (comprese le tentazioni insite nelle posizioni di potere) soltanto appellandosi costantemente alle proprie ragioni ideali ed alla propria capacità di consentire il continuo dialogo ed il confronto, che devono mantenersi il più larghi possibile.
Contro le involuzioni totalitarie ed autoritarie, quindi, è necessario elaborare un complesso di principi, che il pensatore austriaco identifica nella stretta connessione tra "razionalismo critico" o scientifico e "società aperta". Così come la scienza è un sapere fondato sull' esperienza , in continuo progresso e cambiamento -epperciò anche fallibile e precaria-, anche la società perfetta non può esistere (ecco la critica a Marx) e diventa indispensabile garantire in essa il pluralismo di confronto politico e d' informazione, sì che sia sempre possibile che anche una minoranza possa, con il consenso popolare, diventare a sua volta maggioranza in un clima in cui il confronto tra i partiti, le associazioni, i giornali, i sindacati, consenta la maturazione di un' opinione pubblica libera.
Anche gli interventi dello Stato, allora, avverranno in ottemperanza a finalità di ingegneria sociale: essi "ci riportano alla nostra originaria affermazione che si devono pianificare misure per combattere i mali concreti, piuttosto che per realizzare qualche bene ideale. L' intervento dello Stato deve essere limitato a quanto è veramente necessario per la protezione della libertà."
Grande pensatore sul tema democrazia lo fu anche Hans Kelsen. La democrazia, egli affermò, ha il proprio fondamento nella libertà. In convinto dissenso con i marxisti che opponevano ad una democrazia fondata sul principio della maggioranza (democrazia"solo formale") quella fondata sull' uguaglianza sociale (democrazia "sostanziale") egli sottolineava che anche storicamente la lotta per la democrazia è sempre stata una lotta per la libertà politica, ossia per la partecipazione del popolo alle funzioni legislative ed esecutive, e che l' uguaglianza deve intendersi come il dovere di partecipare in uguale misura alla formazione dell' idea dello Stato.
Egli aggiungeva che mentre è possibile immaginare una società perfettamente egualitaria ma non libera (senza poter cioè escludere che essa possa nel contempo essere autoritaria od addirittura totalitaria), non è invece concepibile una democratica che non rispetti le libertà fondamentali dell' individuo, quali quelle di pensiero, parola, stampa.
Da qui, deriva la necessarietà del suffragio universale e dei partiti politici, perché l' individuo isolato non ha politicamente alcun influsso sulla formazione delle idee dello Stato.
Kelsen, sensibile come Popper ai presupposti filosofici-epistemologici del pensiero liberal-democratico, rimane poco efficace nell' affrontare il nesso intercorrente tra liberalismo e struttura socio-economica.
Quale rapporto intercorre, allora, tra liberalismo e liberismo?
Sempre interessante ed educativo rimane il confronto tra le concezioni espresse in Italia tra Benedetto Croce e Luigi Einaudi.
"... l'idea liberale può avere un legame contingente e transitorio, ma non ha nessun legame necessario e perpetuo con la proprietà privata delle terre e delle industrie [...] essa si oppone primamente e direttamente all' oppressione e falsificazione della vita morale da qualunque parte si eserciti, da assolutisti e da democratici, da capitalisti o da proletari, da czar o da bolscevichi, e sotto qualunque funzione mitica, sia quella della razza ariana, sia l' altra della falce e martello". ( B. Croce, recensione del libro Le origini del liberalismo europeo di H.J. Laski)
"l' ideale liberale ha natura religiosa", cioè muove dalla libertà come esigenza morale.
A Luigi Einaudi questo carattere metastorico che il Croce attribuiva alla libertà ripugnava fortemente.
Egli credeva invece che il rapporto tra liberalismo ed ordinamenti economici fosse organico e profondo.
Nel mondo contemporaneo egli riteneva che, seppur diversissimi nei presupposti, comunismo e capitalismo monopolistico negassero nella stessa misura la libertà umana.
Entrambi i sistemi, infatti, "tendono, per la indole loro propria a ridurre gli uomini a meri strumenti, anelli minimi di una ferrea catena che lavora e produce, [...] a imprimere uno stampo uniforme su tutti gli uomini, a farli svegliare, muovere, entrare in certi luoghi di lavoro, che si direbbero di pena, alla stessa ora, a compiere i medesimi atti". Di conseguenza, "perché affermare che la libertà morale può prosperare in qualunque ordinamento economico? Se la filosofia indaga la realtà, perché chiudere gli occhi al fatto che i certi ordinamenti economici la libertà è appannaggio di pochissimi eroi o ribelli?"
come non essere d'accordo con Einaudi? E' per questo che l'Italia è così messa, appunto perchè Croce è stato celebrato nelle scuole di filosofia della Repubblica italiana che nulla deve a quest'uomo. E molto di più a Einaudi.
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