Avevo un amico - marito della mia migliore amica-, medico cardiologo di un ospedale veneziano, che si riteneva innocente ed irresponsabile rispetto alle sue rispettabili ed imminenti proprietà immobiliari.
Ora, lui mi voleva un gran bene, lo so; provava una certa stima nei miei confronti e ci siamo scambiati via mail molti racconti, confidenze e pareri su argomenti umanistici nonché, nello specifico, sulla sua "bislacca" vita matrimoniale, che, ad onor del vero, dopo anni ed anni di lamentele, ritengo non si sia ancor in alcun modo risolta.
Naturalmente votava a sinistra (la sinistra ben nota, borghese fino all' osso, di chi va in vacanza cinque volte l' anno e guarda un martello come si fa con un reperto archeologico appartenuto ad un uomo di Neanderthal), ed era un pochino intellettuale, se pur poi, nelle scelte e nei calcoli di convenienza, pragmatico ed interessato come uno di destra. Che fare: la perfezione non è che astrazione...
Un giorno, a casa loro -non so bene come fu-, dichiarai, con la mia antica irruenza ed un po' di perfidia, che la concentrazione di ricchezza, l' accumulo di denaro, le corpose proprietà immobiliari e via dicendo, sono un crimine. Dissi così: "La ricchezza è mostruosamente nefanda, perché orribilmente ingiusta. Mi fa schifo."
Fui gentile, mi pare, perché non dissi affatto "Voi ricchi mi fate schifo": ciò non sarebbe stato corretto, perché una persona si compone di molti lati e di una sua complessa storia, e potrebbe anche essere il caso che qualcuno si ritrovi ricco per iattura, grazie a macchinosi automatismi ereditari.
Lui, infatti, mortificato, mormorò quasi impercettibilmente: "Ma io non ne ho colpa.", ed io, per compassione (oh, mio povero, povero amico...), risposi soltanto con uno sguardo e lasciai cadere il doloroso argomento.
Noi moderni modelliamo le parole -ma anche i concetti- come fanno i bimbi con la plastilina. Ci piace estenderne i significati, giocare con i segni, ingegnarci con la fantasia per accomodarne il senso nelle varie circostanze. Noi siamo anche potenti sognatori, ed al sogno, se occorre, sacrifichiamo anche la coerenza e l' intellettuale onestà. Io, il suo sogno di sinistra, non ho avuto cuore di strapparglielo; e poi non è mica il solo a far confusione...
Non c' è termine, canone, idea, concetto, propri di politica ed economia, che non siano stati revisionati.
D'altronde, siamo in perenne divenire...
Ho perso il conteggio delle volte in cui gli esponenti dell' attuale governo han pronunciato la parola "liberali". "Noi siamo liberali; democratici e liberali". "Noi non siamo mica comunisti..."
Ma che cos' è, sto liberalismo? Ed il liberismo? E che c' entrano con la democrazia?
Noi moderni modelliamo le parole -ma anche i concetti- come fanno i bimbi con la plastilina. Ci piace estenderne i significati, giocare con i segni, ingegnarci con la fantasia per accomodarne il senso nelle varie circostanze. Noi siamo anche potenti sognatori, ed al sogno, se occorre, sacrifichiamo anche la coerenza e l' intellettuale onestà. Io, il suo sogno di sinistra, non ho avuto cuore di strapparglielo; e poi non è mica il solo a far confusione...
Non c' è termine, canone, idea, concetto, propri di politica ed economia, che non siano stati revisionati.
D'altronde, siamo in perenne divenire...
Ho perso il conteggio delle volte in cui gli esponenti dell' attuale governo han pronunciato la parola "liberali". "Noi siamo liberali; democratici e liberali". "Noi non siamo mica comunisti..."
Ma che cos' è, sto liberalismo? Ed il liberismo? E che c' entrano con la democrazia?
***
Il liberalismo
(sunto da un' analisi di Giuseppe Bedeschi)
Nel 1911 Leonard T. Hoblouse, politologo e sociologo, pubblicò in Inghilterra il libriccino Liberalism, che elaborava la concezione del liberal-socialismo.
Questi, criticando aspramente la concezione individualista del vecchio liberalismo secondo la quale l' uomo d' affari era "colui che s' è fatto da solo" (un po' come ritengono oggi tanti imprenditori del Nord Est), quasi come se la proprietà venisse conferita dalla Natura o dalla Provvidenza, osservava che egli, invece, senza la società che gli fornisce i mezzi per coltivare la sua attività (le strade, le ferrovie, il mare, gli operai specializzati, la somma delle intelligenze a sua disposizione, gli acquirenti dei suoi prodotti e tutto ciò che implica genericamente uno sforzo collettivo) non avrebbe mai raggiunto alcun successo, perciò "Se egli scava alle fondamenta della sua fortuna si renderà conto che, come è la società che mantiene e garantisce i suoi possessi, così la società è un socio indispensabile della creazione originale." (v. Hobhouse, 1911)
I problemi sociali, però, non si risolvono con il liberismo: Hobhouse non ebbe difficoltà a concepire una organizzazione socialistica dell' industria (socialismo "liberale", in antitetsi a quello "illiberale" di ispirazione marxista) e ciò comportava la conciliazione tra libertà ed uguaglianza, liberalismo e democrazia. Attraverso tali compenetrazioni egli riteneva che i benefici del meccanismo economico così innescato non si sarebbero limitati a favorire un ristretto numero di soggetti, ma l' intera società.
Con la terribile crisi del 1929 (Am j liberal? si era chiesto Keynes nel 1925) era apparso ormai chiaro che l' idea di un mercato in grado di autoequilibrarsi e di uno Stato in posizione di mero garante della concorrenza lecita era smentita.
Nel 1925 Guido De Ruggero nel suo libro Storia del liberalismo europeo affrontò l' analisi del rapporto tra liberalismo e democrazia, che è insieme di continuità e di antitesi e si fonda essenzialmente sui due principi: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo a governarsi da sé. Tuttavia esiste una profonda diversità nel pensiero politico dei due concetti, in grado di originare ugualmente conflitti.
In sintonia con il pensiero di Alexis de Tocqueville, De Ruggero sottolineava anche l' effetto di conformistica uniformità che le grandi società democratiche di massa necessariamente provocavano. Burocratizzazione, diffusione di una mentalità assistenzialistica in cui tutti hanno diritto a tutto a prescindere dall' apporto del singolo. Ecco il sorgere di "una specie di statolatria, cioè l' Idea che lo Stato sia una specie di provvidenza terrena: un' idea che costituisce la forma più degradante dell' idolatria moderna".
Comincia a profilarsi la questione dell' uomo-medio e delle masse, analizzati, anche sotto una prospettiva antropologica e sociologica,da José Ortega y Gasset nel suo "La rebelion de las masas".
Chi era il suo "uomo medio"? E' "l' uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in sé stesso un tipo generico". Ortega aveva una concezione elitistica della storia e riteneva che fino alla fine dell' Ottocento e ai primi del Novecento fossero state le élites ad aver dominato e che in base alle elaborazioni dei loro programmi le masse avessero semplicemente aderito.
Senza chiarire con precisione la sua analisi, egli constatò poi l' evento "catastrofico" dell' avvento di un dominio dell' "uomo-massa" (inerte, pivo di obiettivi di largo respiro, senza inquietudini né interrogativi, irrispettoso del dissenso) e la sconfitta delle aristocrazie intellettuali, perché "la massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia come 'tutto il mondo', chi non pensi ' come tutto il mondo' corre il rischio di essere eliminato. Adesso 'tutto il mondo' è soltanto la massa."
Nonostante Ortega fosse stato tacciato di una lettura "reazionaria" dei fenomeni,egli vide chiaramente delineata, nelle caratteristiche antropologiche dell' uomo-massa, la base dei regimi totalitari del xx secolo.
(continua)
Questi, criticando aspramente la concezione individualista del vecchio liberalismo secondo la quale l' uomo d' affari era "colui che s' è fatto da solo" (un po' come ritengono oggi tanti imprenditori del Nord Est), quasi come se la proprietà venisse conferita dalla Natura o dalla Provvidenza, osservava che egli, invece, senza la società che gli fornisce i mezzi per coltivare la sua attività (le strade, le ferrovie, il mare, gli operai specializzati, la somma delle intelligenze a sua disposizione, gli acquirenti dei suoi prodotti e tutto ciò che implica genericamente uno sforzo collettivo) non avrebbe mai raggiunto alcun successo, perciò "Se egli scava alle fondamenta della sua fortuna si renderà conto che, come è la società che mantiene e garantisce i suoi possessi, così la società è un socio indispensabile della creazione originale." (v. Hobhouse, 1911)
I problemi sociali, però, non si risolvono con il liberismo: Hobhouse non ebbe difficoltà a concepire una organizzazione socialistica dell' industria (socialismo "liberale", in antitetsi a quello "illiberale" di ispirazione marxista) e ciò comportava la conciliazione tra libertà ed uguaglianza, liberalismo e democrazia. Attraverso tali compenetrazioni egli riteneva che i benefici del meccanismo economico così innescato non si sarebbero limitati a favorire un ristretto numero di soggetti, ma l' intera società.
Con la terribile crisi del 1929 (Am j liberal? si era chiesto Keynes nel 1925) era apparso ormai chiaro che l' idea di un mercato in grado di autoequilibrarsi e di uno Stato in posizione di mero garante della concorrenza lecita era smentita.
Nel 1925 Guido De Ruggero nel suo libro Storia del liberalismo europeo affrontò l' analisi del rapporto tra liberalismo e democrazia, che è insieme di continuità e di antitesi e si fonda essenzialmente sui due principi: estensione dei diritti individuali a tutti i membri della comunità e diritto del popolo a governarsi da sé. Tuttavia esiste una profonda diversità nel pensiero politico dei due concetti, in grado di originare ugualmente conflitti.
In sintonia con il pensiero di Alexis de Tocqueville, De Ruggero sottolineava anche l' effetto di conformistica uniformità che le grandi società democratiche di massa necessariamente provocavano. Burocratizzazione, diffusione di una mentalità assistenzialistica in cui tutti hanno diritto a tutto a prescindere dall' apporto del singolo. Ecco il sorgere di "una specie di statolatria, cioè l' Idea che lo Stato sia una specie di provvidenza terrena: un' idea che costituisce la forma più degradante dell' idolatria moderna".
Comincia a profilarsi la questione dell' uomo-medio e delle masse, analizzati, anche sotto una prospettiva antropologica e sociologica,da José Ortega y Gasset nel suo "La rebelion de las masas".
Chi era il suo "uomo medio"? E' "l' uomo in quanto non si differenzia dagli altri uomini, ma ripete in sé stesso un tipo generico". Ortega aveva una concezione elitistica della storia e riteneva che fino alla fine dell' Ottocento e ai primi del Novecento fossero state le élites ad aver dominato e che in base alle elaborazioni dei loro programmi le masse avessero semplicemente aderito.
Senza chiarire con precisione la sua analisi, egli constatò poi l' evento "catastrofico" dell' avvento di un dominio dell' "uomo-massa" (inerte, pivo di obiettivi di largo respiro, senza inquietudini né interrogativi, irrispettoso del dissenso) e la sconfitta delle aristocrazie intellettuali, perché "la massa travolge tutto ciò che è differente, singolare, individuale, qualificato e selezionato. Chi non sia come 'tutto il mondo', chi non pensi ' come tutto il mondo' corre il rischio di essere eliminato. Adesso 'tutto il mondo' è soltanto la massa."
Nonostante Ortega fosse stato tacciato di una lettura "reazionaria" dei fenomeni,egli vide chiaramente delineata, nelle caratteristiche antropologiche dell' uomo-massa, la base dei regimi totalitari del xx secolo.
(continua)
Nessun commento:
Posta un commento