sabato 15 marzo 2014

Visto, per caso,  "All is lost", il film che racconta la drammatica esperienza di un naufrago nell'Oceano Indiano? La vittima si sveglia di soprassalto nel suo ragguardevole e ben equipaggiato yacht cullato dalle onde per scoprire che un container galleggiante alla deriva ha squarciato un fianco del suo natante. Comincia da lì un'odissea di coraggiosi espedienti di sopravvivenza ed eroico contrasto alla forza implacabile e decisamente indifferente della natura, ecc. ecc. ed in qualche modo va a finire...

Io sono una tipa che ha la similitudine sempre in erezione, così poi ho pensato immediatamente agli squarci che i vari container alla deriva hanno arrecato, volta dopo volta, nella mia vita ed anche a quelli addosso ai quali mi sono fiondata da me medesima per avventatezza,  stupidità, o fatale distrazione: molti, troppi.
Come il naufrago,  ho reagito sempre, in qualche modo, grazie all'adrenalina della disperazione e a una certa dose di (forse) presuntuosa autostima.
Non è solo l'istinto animale alla sopravvivenza che controlla le tempeste dell'esistenza e consente di superarle: bisogna amarne almeno qualche aspetto significativo particolare, bisogna sentirne almeno qualche altra sottile promessa di seduzione, credere che la bellezza possa rinnovarsi prima o poi, immaginare di potercisi immergere ancora, pensare che possa esistere un qualche altro oggetto degno d'amore, ritenersi ancora capaci di accoglierne.
Si deve avere un proprio progetto, abbastanza allettante, intimamente anelato, che possa avvolgere la nuda e cruda realtà oggettiva della vita umana in un alone taumaturgico e pietoso di nebbiolina consolatrice, che imbrogli l'umano cervello onirico e lo convinca che la sua vita non è l'accidente insensato e talvolta drammaticamente beffardo che invece è.

Ma oggi..., oggi davvero è arduo il compassionevole autoinganno. 

8 commenti:

  1. Mi hai fatto venir voglia di vederlo questo film.
    Riguardo al resto, credo che l'autostima sia la zattera di ciascuno di noi [visto che ami le similitudini].
    Un saluto da una tua lettrice solitamente silenziosa.

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    1. ... poi succede che i marosi sgretolino pure la zattera, ed a quel punto s'ha da lasciare che accada quel che deve. Almeno una non dovrà rimproverarsi il peccato d'ignavia.

      Grazie per l'attenzione ed un caro saluto a te.

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  2. Ti invidio abbastanza. Io sono più nutrito dall’istinto del naufrago volontario, dalla drammatica dolcezza del lasciarsi andare. Una festa finché la vita ti ubbidisce o ti risparmia nel tuo recinto di contemplazione ed estasi artistiche. Poi però? Sai qual è l’aspetto drammatico dell’Arte. Che essa ci inebria di assoluto e l’Assoluto è una dimensione che non si attaglia alla relatività della vita “reale”. L’arte ci distrae dagli spigoli della Casa, dai territori impervi e quando ributtiamo lo sguardo sull’abisso che abbiamo sotto i piedi ci contorciamo in uno spasimo di aggiunto dolore. Dovremmo guardare di più il dolore negli occhi e distrarci meno con le piacevolissime rarefazioni dell’arte. Ci abitueremmo di più alla sofferenza. Il rientro sulla Terra dagli empirei estetici accresce sempre il patema dell’ambiente. E a volte penso che sia meglio non partire mai, non sollevarsi in voli destinati allo schianto. Siamo sempre in attesa dello tsunami che ci travolgerà tutti, tanto vale non avvinghiarsi a nessuno scoglio, non illudersi di farlo. Dispensa al principio per i meno anziani!

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  3. Oddio anonimo! Sono Stefano...

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    1. Caro Stefano, la tua è domanda oziosa, certamente. Non c'è alcuna scelta, in fondo, se non ubbidire alla propria indole - che è immutabile - e reiteratamente partire, e reiteratamente schiantarsi.
      Coloro che restano ostinatamente inchiodati al suolo pagano lo scotto di un pragmatismo avvilente che impoverisce l'anima - o quel che è, io non lo so... -, vivono spesso più a lungo la loro vita mezza morta, compiacendosene.
      Bisogna "inebriarsi senza tregua", come disse Baudelaire, e se non esattamente "di vino, di poesia, di virtù", forse pure d'Arte, o di Pensiero.

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  4. Non pensavo a un rapporto pragmatico con la realtà, anche se invidio chi riesce ad averlo, (perché poi in fondo gli ipersensibili paradossalmente si godono meno la vita dei poco sensibili), ma a non abbassare la guardia nei confronti del dolore. Ecco a volte penso che inebriarsi con l'Arte, che pure non censura la sofferenza, anzi, rappresenti uno sguarnirsi di difese. Però nella vita "non possiamo fare altro che distrarci"... sempre PPP!

    p.s a una prima lettura avevo interpretato: "inchiodati al suolo pagàno"!

    ciao, Stefano

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    1. Oh, ma io non potrei mai abbassare la guardia di fronte al dolore: mi appartiene totalmente, ne sono perenne ostaggio, per ragioni sotterranee ma reali ed oggettive. Neppure l'intimità con la sofferenza si può scegliere, in fondo: è il dolore che ti serra stretto tra le sue spire, e, se pure non costituisse fatto privato o personale, l'ipersensibile è maestro nell'empatizzare con quello del mondo.
      (Mi rendo conto che così scritta la cosa può significare tutto e nulla, un po' oracolante e misteriosa, ma siamo in spazio aperto, nel web, ed io sono persona discreta).

      Ricordo una delle classiche letture giovanili, "Il Profeta" di Gibran, che lo descrive come il nocciolo da schiudere per aprire la conoscenza. Quanto mi piaceva crederlo! Quant'era gratificante immaginarne un senso, stare ad aspettare di avere alfine tutto chiaro, magari un po' più avanti, dopo le necessarie esperienze e meditazioni di una vita!
      Oggi so che è vero, che il nocciolo s'è schiuso, che la conoscenza della natura umana è a buon punto, tragicamente matura, ma non so a che serva, né a chi. Sospetto a niente, sospetto a nessuno.

      Non possiamo che farci cacciatori di momenti.

      Un sorriso.

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  5. "chi vive nella prospettiva dell'eternità? Solo colui che arde nella ricerca del senso della sua esistenza, e conscio del suo limite, vola nel Cielo Altro di Dio e del suo Mistero." Riccardo Secchi

    Stefano

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