Frida Kalho- Le due Frida |
"Cadeva in pause sempre più lunghe in cui semplicemente stava. Ascoltava il silenzio. Come una diafana betulla nella nebbia novembrina di un’alba malinconica. Macchie grigie di nulla che si espandevano come maree di idrocarburi, oleose chiazze di sospensione in cui galleggiava mentre le funzioni vitali rallentavano sino a ridursi ad un cauto battito cardiaco sostenuto appena da quel filo d’aria e fumo freddo sospeso nella stanzia ghiacciata. Spillava tempo alla vita, come parsimoniosa massaia che centesimo su centesimo accantonasse il piccolo patrimonio necessario per i doni di natale lei consumava in una infinitesimale, subdola erosione il plafond dei suoi giorni, in quel conto alla rovescia ormai confuso da troppe scadenze disattese.
Morì l’estate dei suoi cinquantun’anni.
Le parve semplicemente inevitabile. Quella bizzarra età recava una sorta di valenza allegorica, come una soglia spalancata su una atroce alternativa. Da un lato l’ineluttabile e ormai chiaramente intuibile declino del corpo, lo sfacelo della mente, l’annacquarsi del ricordo circonfuso di sogni e immagini fasulle, la sua storia ridotta a immagini scoordinate come le poliedriche istantanee rinviate dai frammenti di una specchio infranto. Dall’altro finalmente l’epifania attesa così a lungo, la risposta al quesito sotteso ad ogni suo giorno d’adulta. C’è qualcuno lì? Ci siete ancora voi che siete andati oltre i miei sensi, dileguati in una sostanza che non posso toccare, in odori che il mio olfatto non può catturare, in suoni che l’etere trascina altrove, in colori che l’abisso cieco delle mie pupille inghiotte senza recepire?
Prese senza strappi congedo dalla vita, costruendo successivi gradi di lontananza. Di giorno in giorno retrocedeva dolcemente verso un crepuscolare entroterra, una caverna misteriosamente inesplorata che si era spalancata nel suo essere più segreto e la evocava con un richiamo suadente, una nota sospesa, un’eco appena percettibile e insistente. E di giorno in giorno il mondo condiviso diveniva un concetto retorico, una reiterata leggenda udita troppe volte mentre quella nuova patria, quella terra promessa, la chiamava senza tregua con la voce della nostalgia per un’origine ancestrale da cui la violenza del parto l’aveva strappata e cui ora, scontati i suoi giorni di mortale, veniva riammessa.
Aveva iniziato a perdere ridondanze di materia. Impercettibilmente, con inappellabile puntiglio, assottigliava il corpo che l’aveva ospitata privandolo di sostentamento. Tacitava le sempre più blande e disperate recriminazioni dello stomaco distraendolo con vegetali pressoché privi di apporto nutrizionale e costringendo il suo metabolismo ad autoalimentarsi digerendo sé stesso. E mentre il suo corpo si alleggeriva, come uno zaino divenuto pesante sulle spalle del viandante dal quale questi estragga e getti qualcosa di superfluo all’incalzare della stanchezza, il suo spirito sembrava sintonizzarsi sempre più esattamente su una frequenza segreta, appartenente alla terra, a cose antiche, a un sapere precluso ai vivi che in lei iniziava a prendere i contorni incerti di un’intuizione. Sentiva dentro sé l’orologio biologico scandire con ritmo costante il tempo dell’eternità, secondo un ordine proprio degli alberi, delle rocce, degli abissi marini e c’erano brevi istanti, fra il sonno e la veglia, i brevi istanti in cui cadeva nel vortice del sogno o sostava nel vuoto prima che la consapevolezza tornasse con il risveglio, in cui vedeva con stupefacente e calma certezza il modo ed il momento del proprio trapasso.
Non capiva come gli altri non possedessero quella visione: aveva l’impressione che fosse una espressione di intelligenza analoga alle altre, che ciascuno la portasse in dote, che ad ogni essere vivente venisse codificata nei geni come le rotte migratorie nella memoria primordiale degli uccelli e la caccia al cucciolo del ghepardo nell’istinto della leonessa.
Fra le molte e sanguinose delusioni cui un’indole sognatrice e una sostanziale, incorruttibile ingenuità l’avevano esposta, la principale, quella determinante anche ai fini della sua definitiva decisione era costituita da quello strano figlio. A volte ricordava come, in occasione di una delle prime poppate, l’infermiera avesse scambiato i neonati e le avesse portato un cucciolo d’altra madre. Qualcosa non soddisfaceva i suoi sensori di puerpera e tuttavia non identificò l’errore sino al momento in cui l’imbarazzatissima signorina venne a riparare alla confusione, ristabilendo l’ordine fra madri e pargoli. Quella sua incapacità di riconoscimento la scosse sin nei precordi, umiliandola e mortificandola, con la denuncia di una sua incolmabile incapacità ed al contempo con il presagio di una asintonia grave e preoccupante, un accordo falso e compromettente, un preludio di future e ben più devastanti incongruità. Nel tempo a venire dovette sovente chiedersi quale mancanza avesse commesso nell’arco della gestazione, quale errore nel processo educativo, quale colpa nell’esercizio del proprio ruolo, per aver prodotto quell’adulto alieno e sotterraneamente ostile nel quale intuiva una natura distante dalla propria che la propria negava e sviliva.
Naturalmente costruire il palinsesto della propria morte richiedeva argomenti strutturali persino più importanti delle disfatte di madre e lavoratrice anche se certo aver investito in una iridescente e fragile bolla di sapone gli ultimi trenta estenuanti anni del suo percorso non poteva considerarsi fallimento di poco conto. Il nodo autentico attorno al quale aveva tessuto il sottile e attorto filamento sul quale correva la ratio della propria autodistruzione era in verità l’adamantina consapevolezza della mostruosità della propria essenza.
Mostruosità in senso proprio, giacché aveva maturato l’ormai inossidabile certezza di non appartenere alla specie animale di cui per nascita, aspetto, proprietà anatomiche, avrebbe dovuto costituire un esemplare: al contrario nutriva per quei suoi “simili”, persino per coloro che biologiche impellenze costringevano ad amare, un disprezzo ed un’avversione alla lunga insostenibili. Ne detestava tutto.
L’indole predatoria che in quel mondo satollo ed evoluto aveva trovato le più subdole ed arzigogolate modalità espressive e che non di meno finiva sovente con il palesarsi attraverso il mero atto assassino: la coercizione nella sua estrema manifestazione e l’affermazione dell’ego attraverso l’annientamento dell’alter.
E ne detestava la codardia. Oh sì, la mancanza di coraggio costituiva presso il tribunale della sua coscienza un crimine efferato e spregevole, ulteriormente aggravato dalla circostanza che vedeva quel tribunale affollato persino dagli insospettabili. I pusillanimi vivevano i propri giorni nell’angoscia di garantirsene altri: non aveva particolare rilievo la gradevolezza delle condizioni vitali né se il prezzo del proprio spazio vitale fosse sostenuto da terzi né se il mondo intero avrebbe tratto beneficio dalla loro dipartita. L’essenziale era esserci, restare, durare, a costo di comprarsi un cuore, un fegato, una milza nuovi dal banco espositivo su cui stavano allineati i pezzi di ricambio, per tutelarsi con uno degli strumenti più efficaci al raggiungimento dell’obbiettivo: la giovinezza. L’eterna, intatta, infrangibile, invidiabile giovinezza. A suon di interventi, riduzioni, aggiunte, sostituzioni, innesti, revisioni, trapianti. Vivere era la sola indiscussa condizione che fossero disposti a considerare per sé.
Al contrario lei da tempo consolidava la convinzione di sostare in un preludio di qualcosa di là da venire e la pazienza di attendere l’ammissione a quel livello alternativo di esistenza era completamente esaurita: l’impazienza, frammista ad un indomito orgoglio che la voleva artefice del proprio destino, la indusse pertanto a stabilire il momento oltre il quale non ci sarebbero stati altri foglietti datati da strappare dal calendario. Il giorno del suo compleanno le parve decisamente un’opzione volgare e narcisistica e l’anniversario della morte della madre era ormai trascorso per cui decise che l’equinozio d’autunno ben potesse ospitare il risibile gesto con cui avrebbe calato il sipario sul mondo.
Avrebbe prenotato una stanza in un lussuoso albergo dove trascorrere una notte di fine estate, avrebbe lasciato una cospicua regalia al personale di servizio per risarcirlo del lavoro supplementare cui l’avrebbe costretto e consolarlo per l’orrore di una immagine fotografica che forse per qualche tempo avrebbe turbato i sogni o insidiato la coscienza con il fastidio di uno scrupolo, di un dubbio irritante. Avrebbe provveduto con adeguato anticipo a collocare le proprie cose, i propri miserrimi averi.
Sarebbe uscita in punta di piedi, recando il minimo disturbo o imbarazzo possibili.
Aver attraversato il guado della scelta le conferiva una inedita calma: ogni preoccupazione, ogni infausto presagio, ogni necessità, venivano catturati dalla coscienza della loro estemporaneità e sciolti in quella tragica quiete come gusci d’uovo immersi in aceto.
Tuttavia, forse per retaggio dell’ansia di tutta una vita, sulla piana superficie di quell’atona attesa, serpeggiavano pulsioni e umori, repentini brividi le increspavano l’anima nel disperato tentativo di denuncia di un’ingiustizia abominevole, di un misfatto aberrante. Non riusciva a focalizzarli ed interpretarli appieno poiché da tempo il corso logico del pensiero si era sfilacciato in mille circuiti di base, anarchici e indipendenti, fucine di esplosioni improvvise e oscuramenti accecanti.
Riusciva ad intendere quelle pulsioni come un pallido spettro del desiderio d’essere ma, per quanto immensa sia la mole di dolore necessaria a debellare il più radicato e indomito degli istinti d’ogni essere vivente che è quello della propria sopravvivenza, lei l’aveva sperimentata tutta, la reggeva su spalle sempre più fragili da tempo incommensurabile, immemore ormai dell’ultimo istante di felicità, se mai ne aveva conosciuti.
Sapeva altresì quanto fosse sciocca la tentazione di ravvisare nella vicenda della propria vita, in quell’alba della fine, un sopruso iniquo ed immeritato: miliardi di inutili vite dimenticate s’erano consumate e perdute senza lasciare una sola ruga sull’imperturbabile superficie della stellare indifferenza. Eppure ciascuna d’esse era stata per sé stessa l’inizio e la fine di tutto, fulcro d’ogni mondo ipotizzabile, supremo senso, fine, risposta. Ciascuna aveva assistito alla propria agonia con l’angosciato stupore di chi contempla un evento estintivo della specie mentre non si trattava che di un silenzioso rito d’ordinaria quotidianità.
Al contrario, lei sedeva su una poltroncina di terz’ordine nell’ultima galleria, sempre dietro quella inopportuna colonna che le aveva sottratto la visuale del palcoscenico per tutta la durata dello spettacolo, rassegnata ad udire la melodia senza alcuna prospettiva della buca donde l’orchestra suonava né tanto meno dei fasti dei costumi di scena degli attori che interpretavano il dramma o la commedia (non aveva compreso di quale rappresentazione si trattasse) per altri spettatori, meglio assisi o più perspicaci.
Si chiedeva se le sue facoltà di comprensione non fossero state compromesse dall’imperversare delle interferenze che nel corso di quei 51 anni avevano disturbato ascolto e contemplazione. Emozioni primitive, paure selvagge, primordiali istinti. E poi il dolore. Quell’eterna, inconsolabile, straziante pena fatta di lutti e rimorsi, di compassione e solitudine.
Esitava. Concedeva a sé stessa una dilazione d'imprecisata entità. Ad ogni risveglio l'affilata lama di una disperazione beffarda e allucinata le trapassava il petto con l'oscena evidenza di dover di nuovo posare sul parquet i piedi freddi, organizzare una successione di passi lungo l'asse camera-cucina, preparare un mediocre caffè, non prima d'aver assecondato le invero modeste pretese dei mici, cambiare l'acqua, pulire la cassetta igienica, sminuzzare il cibo umido. E quindi affacciarsi al ciglio dell'abisso e trovare l'istante di abbandono o incoscienza per lasciarsi cadere nella voragine di nulla di una nuova giornata da impiegata precaria e vessata. E mentre rotolava lungo la traiettoria scomposta d’una goccia di pioggia sulla superficie sporca d’una finestra verso il fondo di quel nero pozzo di tedio e avvilimento, di stanchi e inutili riti domestici, constatava che ancora per quel giorno, quel giorno solo, sarebbe riuscita a guadagnare la sera e poi il perdono della notte e ancora forse un sogno. Magari avrebbe sognato una madre finalmente riappacificata e dolce, il grembo salvifico cui tornare e raggomitolarvisi al sicuro, fra braccia immense e tiepide e indifferenti alla sua nuova bruttezza di adulta sfiorita e stinta. O avrebbe sognato un amore come da sveglia non sapeva più fare, tediata dal reiterarsi della miseria e dello squallore cui puntualmente conducevano tutte le strade che aveva percorso. O avrebbe planato rasente il pelo d'acqua di distese oceaniche con ali d'albatro o fluttuato verso il cielo, sospinta dalle correnti ascensionali negli abbacinanti scintillii di eterni ghiacciai conficcati nei densi nembi sul tetto del mondo.
E se invece un disegno fosse esistito, un progetto, una partitura? Se quel vuoto orrendo, quel terrificante silenzio fossero l’equivoco prodotto dalla sua stupidità?
L’insidiava il caustico sospetto d’aver vissuto una cieca esistenza nella grigia ombra d’un mondo pieno di colore, sorda alla sua sinfonia corale, ai margini estremi d’una galassia intessuta di interessenze e connessioni esatte, di sublime corrispondenza. Tessera del mosaico al cui interno si incastravano in perfetta consonanza tutte le vite di tutti i tempi. Forse esisteva quella forza misteriosa e semplicemente inarrestabile in cui confluiva e da cui promanava ogni singola cellula vivente e che trascinava piante, animali e uomini in un’ unico destino di eterna consequenzialità.
In infiniti cerchi concatenati tutti i vagiti dei figli del mondo, ogni loro respiro, ogni scelta, ogni azione, ogni morte, ogni foglia caduta, ogni più infinitesimale atto nella cosmica rappresentazione di quel brulicante spettacolo della vita aveva una ricaduta diretta e ineluttabile, provocava una variazione nell’equilibrio delle corrispondenze, uno spostamento di pesi sull’asta della bilancia necessario ed ineludibile per cui nulla più sarebbe in seguito stato lo stesso, in un incessante scorrere di linfa in vasi comunicanti iniziato all’alba dell’universo e proiettato verso l’infinito.
Le sembrava che allargando la concezione dell’essere oltre le irrisorie, in sé stesse, individualità, quelle individualità acquistassero spessore e valore in relazione alle altre. Le sembrava che la visione a distanza del tutto conferisse un senso agli innumerevoli, microscopici particolari che a quel tutto concorrevano e che nell’insieme trovavano una propria specificità indispensabile, un fattore di unicità di vitale importanza.
Nulla accade fra terra e cielo che non provochi un fremito nel cuore della vita. Nulla avviene senza conseguenze.
Nel momento in cui il suo respiro si fosse arrestato, quando l’ultimo granello di sabbia fosse scivolato nella clessidra e il suo cuore avesse battuto l’ultimo esausto rintocco, l’indifferenza in cui quell’attimo si sarebbe disperso non avrebbe in alcun modo scalfito la portata cosmica che il suo vivere e morire, nella generale insipiente ignoranza ed a dispetto della propria stessa incredulità, aveva avuto." (CristinaMartini)
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Bellezza straziante del dolore.
Imponendo i propri istanti all’ indifferente universo, essendoci ,dunque (!), -essendoci, e basta-, violentemente si è.
Non è un incubo, non è sogno: ma il mio respiro sta comunque modificando il mondo.
Respiro... trasformo il mondo.
Tu che mi leggi stai, pure, cambiando il mondo: emozioni elettriche, fasci invisibili d’ energia, le tue lacrime, le mie, il cuore che duole, pensieri che copulano, si rincorrono, si perdono e re incontrano. Immaginazione, struggente malinconia. Odor di poesia. T' odio e pur ti amo, Vita.
Non importa se non sarà piacere.
Me ne frego del piacere, lo sovrasto, supero l’ uomo, supero il Dio imperturbabile e freddo.
Resisto come un Dio più grande, io, lombrico pensante e sconfinato; ed anche tu, che accogli e poi in silenzio, forse, rispondi.
Resisto come un Dio più grande, io, lombrico pensante e sconfinato; ed anche tu, che accogli e poi in silenzio, forse, rispondi.
Solo da vivi, si può.
Rido, piango.
Amo cani, gatti, amo te, sparuto umano degno.
Ed ho notato quell’ increspatura tra le sopracciglia: nasconde il terzo occhio, l’ occhio consapevole della solennità della Vita, la Vista elettiva che non necessita di alcuna divinità, che rende atti all’ Amore, nonostante tutto, nonostante tutti.
Il poi non importa. Me ne frego anche del poi. Dei se dei ma dei forse.
Ma niente, dopo di te, dopo di me, sarà lo stesso.
Ma niente, dopo di te, dopo di me, sarà lo stesso.
Pubblico, perché gli innamorati della morte imparino il coraggio.
Che bello quel testo lungo.. Cristina Martini è tua sorella? E di chi racconta (pensavo di Frida Kahlo, ma risulta che morì prima dei 51 annni)?
RispondiEliminaSì Elio: la Cri è la mia unica amatissima sorella. Siamo rimaste presto le sole superstiti della famiglia. Il racconto è la verità delle nostre due vite e lo specchio dei nostri geni. Da ragazze scherzavamo -con un misto di amarezza e orgoglioso coraggio- sul nostro comune "cattivo sangue". La depressione ed il suicidio di una nostra consanguinea è stato un episodio che ci ha traumatizzate da giovani donne e che abbiamo, nostro malgrado, interiorizzato ed incessantemente tentato di esorcizzare. Inutilmente, pare. Riemerge: è un iceberg di cui eliminiamo sempre soltanto la parte emersa. Spinge a continue rivisitazioni, talvolta a dolorose identificazioni.
RispondiEliminaLei ed io continuiamo a raccontarci vicendevolmente e da una vita le ragioni per cui valga la pena di resistere e cercare di amare, ancora un po', la vita.
"Le due Frida" rappresenta con grande efficacia il dolore psichico e la forza: lo sento vagamente affine alla mia storia psicologica personale, anche se le ragioni della Kahlo erano molto diverse (e molto più crudeli) delle mie. Lei, però, almeno, ha potuto dipingerle...