mercoledì 19 febbraio 2020

Appunti antropocentrici 12- leopardismi

Conosco oggi soltanto persone apparentemente pacificate con se stesse e che si autodefiniscono realizzate a prescindere dalla qualità oggettiva e dalle difficoltà della loro vita, totalmente ignare della presenza dell'entropia più sfrenata nel loro sedicente destino e pertanto convinte di averlo costruito e magari anche di poterlo modificare con un poco d'impegno, oppure obnibilate da quell'orribile patologia chiamata egoismo che consente di non-solo-sopravvivere bene mentre troppi altri soffrono e muoiono.
La loro esistenza è quella certa qual cosa da tenere così come sta, intrinseca ed immanente.
La maggioranza dell'umanità ha lo spirito del Candide di Voltaire e nel caso in cui  sia capitata la sventura di una vita non esattamente comoda e piacevole ciò non induce di certo a porla in discussione: spesso pare la migliore e l'unica possibile perché, alla fine, con l'abitudine, il male si stempera in una fatalistica rassegnazione inconsapevole  nella generalità dei casi.
Le persone cui mi riferisco, d'altronde, non sono letteralmente disperate ed hanno avuto, a tempo debito, la lungimiranza  di crearsi qualche prudenziale appiglio materiale, ideale  e sentimentale.
(Come si definivano, al tempo delle definizioni? Ah ecco: i borghesi. Una vera moltitudine, oppure soltanto più visibili e logorroici dei veri diseredati ed oppressi?)
Quanto sia costato e costi in termini morali la svendita della libertà e della propria originaria indole è spesso uno sbiadito, irrilevante dettaglio. Questa, almeno, è sempre stata la mia conclusione: supponente e pretenziosa, certo, forse.
Solo di recente, grazie a quel pizzico di saggezza che le metaforiche bastonate della vita sanno indurre, ho scoperto che ciò che davo per certo, come l'amore per la libertà -almeno di giudizio e pensiero- e il desiderio di armonia e giustizia generali non sono affatto prioritari per chiunque.
D'altronde, resto una profana  e non rientro a nessun livello nel gruppo: io sono mio malgrado una perdente nata, secondo gli attuali stilemi nei più vari campi, per indole ed autentica inettitudine al trasformismo.
Eppure, attingendo alla memoria del mio sottosuolo, ricordo che nonostante questo, che è vero da sempre, la potenzialità che ravvisavo nella vita mi ha appassionata violentemente, da ragazza.  
"A vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si han in testa a quell'età": tanto da ritenere, con ridicola sicumera, che chiunque avrebbe, in fondo alla propria coscienza, desiderato l'Uomo nuovo, traboccante d'amore e pure d'intelligenza, entrambi finalizzati a godere senza confini e senza ingiustizie della semplice bellezza del mondo.
E' ridicolo, lo so bene, ma se l'utopia, per definizione, è priva in sé e per sé di pratica realizzazione ha ugualmente lo straordinario potere di nutrire l'anima.

E' risultato poi vero che, come affermò Mark Fisher, "la pandemia di angoscia mentale che affligge il nostro tempo non può essere capita adeguatamente, né curata, finché viene vista come un problema personale di cui soffrono singoli individui malati". 
Quanto comunque sarebbe stata perfino solo ipoteticamente complessa la cura (impossibile senza eliminare interamente un Sistema globalizzato) è ben reso dalla successiva sua determinazione al suicidio.
Però il punto è un altro.
Quanta gente mentalmente angosciata nel senso sottinteso dalla citazione conoscete ed io stessa conosco?
Quanto a me, ripeto, una piccolissima, quasi nulla ed invisibile minoranza se si escludono tutti coloro che patiscono o la mancanza di qualche bene non indispensabile o l'antipatia per questa o quella persona,  questa o quella etnia,  questa o quella circostanza specifica.
Chi non è sorretto dalle comode sicurezze materiali spesso lo è dalle scarse dotazioni intellettuali e culturali.
Tutto questo è, in fondo, tragicamente perfetto.

5 commenti:

  1. Una mostruosa capacità di adattamento ha reso l'uomo la specie dominante del pianeta, e pure l'ente più infame, il più incline ad accettare i peggiori compromessi.

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  2. Concordo completamente e, non senza dolore, mi sento sempre più antispecista.

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  3. Resto stupita e confusa rispetto alle affermazioni di questo post. Giacché ho una certa età e di "metaforiche bastonate della vita" ne ho subite parecchie, devo pensare di rientrare nella categoria delle persone "sorrette... dalle scarse dotazioni intellettuali e culturali", non riconoscendomi in questa angoscia mentale che dovrebbe caratterizzare tutte le persone dal forte sentire e dalla piena consapevolezza della propria "libertà di giudizio e di pensiero". Ho la sensazione, correggetemi se sbaglio, che la casistica umana proposta sia piuttosto limitata, perché o si condividono le fatalistiche conclusioni circa l'infelicità assoluta ed irrimediabile che deve caratterizzare la condizione umana o ci si pone al di fuori della schiera degli eletti, capaci di comprendere e di giudicare, alti al di sopra della congerie di individui che rappresentano gli "enti più infami" del creato, destinati ad ingrossare le file delle "persone apparentemente pacificate con se stesse e che si autodefiniscono realizzate". A parte la considerazione quantomeno presuntuosa legata all'uso dell'avverbio "apparentemente", che attribuisce la detenzione esclusiva della consapevolezza di sé solo ai pochi eletti di cui sopra (considerazione rimarcata dall'altra espressione, "fatalistica rassegnazione inconsapevole", con la quale ancora una volta si esclude dalla candida rosa degli ammessi alla visione della verità chiunque si sforzi, con grande impegno quotidiano, di andare avanti nonostante tutte le avversità e di dare qualcosa agli altri, ancor prima di avanzare richieste o rivendicazioni, asserendo che tale atteggiamento sia, nel migliore dei casi, "apparente", nel peggiore addirittura "inconsapevole", oserei dire ferino...), mi chiedo perché non si debba riconoscere agli altri il diritto di governare la propria vita e il proprio sentire secondo diversi principi, diversi presupposti di partenza o considerazioni conclusive, senza correre il rischio di essere bollati di "trasformismo" o accusati di essersi creati qualche "prudenziale appiglio materiale, ideale e sentimentale" con conseguente "svendita della libertà e della propria originaria indole". La libertà individuale può essere esercitata anche condividendo la propria vita con qualcuno, in un confronto che non è necessariamente rinuncia alla propria individualità, ma può essere crescita e dono. Potrei proporre, giusto a titolo esemplificatico e non esaustivo, l'esperienza della genitorialità, che comporta tante rinunce e un dono infinito di sé, che qualcuno potrebbe, legittimamente, trovare limitante per sé o invasivo rispetto al diritto di un essere futuro di decidere di venire o non venire al mondo, ma qualcun altro potrebbe, altrettanto legittimamente, considerare una fra le condizioni più altamente motivanti e gratificanti dell'esistenza. Ma potrei proporre, seppur con diverso peso ed ambito, anche il confronto in questa sede, con persone che la pensano diversamente e con le quali può essere stimolante condividere un dibattito: o lo stimolo intellettuale, con la conseguente gratificazione mentale che ne deriverebbe, sarebbe troppo dirompente, troppo difforme rispetto alla situazione di angoscia mentale cui si pretende necessariamente di aderire e permanere? Allora, mi chiedo, che senso ha non solo vivere, ma, ancor prima, anche curare un blog, scrivere questi post, attendere un riscontro?

    Spero che i miei toni non siano apparsi polemici, perché non volevano esserlo. E mi auguro di ricevere chiarificazioni sui dubbi espressi.
    Silvia

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    1. Il prologo al mio articolo mi pare piuttosto chiaro. "Conosco oggi soltanto persone...", significa che le mie considerazioni si limitano alle mie esperienze personali e pertanto non hanno la pretesa di rivestire carattere di universalità. Nell'ambito di tale circoscrizione le mie osservazioni acquistano la liceità dovuta a qualsiasi libera opinione senza incorrere in ciò che lei taccia di (cattiva) presunzione. Se considerasse anche l'accezione meno popolare del termine e cioè "supposizione, congettura, ardimento" e via così, forse proverebbe meno antipatia per determinate mie affermazioni, anche se le assicuro che me ne farò una ragione.
      Il suo commento, nel merito, esula dall'argomento del post.
      Non vedo perché porre quella retorica domanda sul diritto degli altri di "governare la propria vita" come se lo negassi: non soffro di mitomania e non ho mai pensato neppure per un attimo d'essere un qualche Dio.
      Conosco perfettamente anche le esperienze che lei cita e giudica, con certezza, altamente motivanti e gratificanti e di conseguenza salvifici, ma non le pare di dimenticare che proprio in virtù del fatto che l'approccio individuale, ma anche la superiore casualità degli eventi della vita, non sono fissi ed immutabili, le stesse potrebbero recare anche sofferenze e negatività?

      In ogni caso, vede, l'angoscia mentale cui si riferisce il post esula dalle azioni e dalle dotazioni, come dire, tecniche, della propria esistenza e non è certo mio esclusivo appannaggio, dato che filosofia e letteratura mondiali, nei secoli, non hanno smesso di trattarne.
      Va da sé che riepilogarne i grandi temi qui non sia possibile, ammesso e non concesso che io ne abbia forza e voglia.
      Se lei è felice me ne rallegro, ma non può insinuare che nel caso contrario esista un difetto di valutazione o supponenza.

      Come chiosa finale le risponderò che sul senso del vivere ci sto lavorando e che invece la cura di un blog come il mio ha molto a che fare con la solidarietà umana.




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