E poi ci sono quelli che tornano alla Natura e finalmente si abbandonano, estatici, tra le sue materne braccia.
Quelli che scoprono i tramonti della Val d'Orcia, la bellezza inconfutabile della saggia ignoranza di persone semplici, del cibo sano e frugale -slow, slow food- la maestosità delle querce centenarie e la religiosa pace dei campi d'ulivi e delle vigne di sangiovese.
Nel loro poderuccio ristrutturato.
L'aere è tiepida, le colline una pittura soave: come dune del deserto arricchite da sfumate policromie d'ocra, terra senese e verde, invitano a pensieri ed esistenza soffice e grata; forse esiste Dio.
Hanno adottato due cuccioli orfani di riccio rinvenuti tra gli arbusti della macchia mediterranea -il loro boschetto intorno a casa-: musetti irresistibili, che dolcezza, quanto amore.
Forse, pentiti, si convertiranno al veganesimo, come Pitagora. Si asterranno anche dal consumare fave (così, per massima coerenza).
Ne deriva loro una neppure tanto sotterranea spocchia, una serpeggiante presunzione malcelata di detenzione di un merito oggettivo (chissà quale, chissà perché, ma certo ci deve essere).
Prima dell'approdo han vissuto in grandi città, lavorando e lavorando, correndo da mane a sera.
Erano dirigenti d'azienda o di banca, capo-redattori di agenzie pubblicitarie, avvocati e commercialisti affermati, e così via.
Conniventi e complici del Capitale, corresponsabili del proprio ed altrui inferno, alla fine si son comprati pure il paradiso.
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