lunedì 17 settembre 2012

Rosa del deserto.

Non è che il dolore metafisico, in sé e per sé, costituisca un merito epperciò sia sbandierabile -oppure anche confidato con pudico sussurro- con orgoglio, né, men che meno, ritengo che qualcuno dal cervello normodotato possa insistere con l'agostinismo secondo il quale  esso è utile per arrivare al bene.

Il dolore accade, e forse il male esiste in sé e per sé.
Accade ai buoni, accade ai cattivi, agli empi, ai giusti, ai poveri, ai ricchi.
Il dolore è egualitario, come la morte: prende tutti.

Succede il più delle volte perché siamo complessi o perché è la nostra vita  a farsi necessariamente complessa e per buona parte al di fuori del nostro volontario controllo.
Per il resto, invece, ce lo arrechiamo o lo arrechiamo ad altri secondo un determinato e preciso atto arbitrario, o per deficienza di congrua riflessione, o per somma ignoranza, o per pura fatale stupidità, od a causa di una sensibilità troppo raffinata.
Personalmente, se soltanto potessi, ne farei tranquillamente a meno e non mi sentirei per ciò depauperata di neppure un grammo della mia umanità, ma se costituisce sforzo titanico avversare la fatalità lo è anche di più contrastare la propria stessa indole.
Comunque  e per qualsivoglia ragione sia, la sostanza non cambia: il dolore accade agli umani, ed accade spesso; anzi, accade quasi sempre e reiteratamente.
Da ciò deriva che farsene scudo od utilizzarlo come alibi all'ignavia od all'indifferenza verso i propri simili ed ai doveri primari vicendevoli che c'impone l'appartenenza alla specie, sia non soltanto amorale, ma anche sordido e squallido, tanto da abbassare dalla scala evolutiva.

Allora che farne? Come gestirlo, dove porlo, come sopportarlo?
Lo rimiro notte e giorno, osservandolo con minuzia dalle diverse prospettive.
E' la mia rosa del deserto: ruvido ed ambrato, ostile al tatto, lamine taglienti.
Ha una sua bellezza selvatica e seducente, le lacrime lo sciolgono, destrutturandolo per un po', fino alla sua puntuale successiva ricomposizione: il più fedele dei compagni di una vita. 

'Il dolore rompe il guscio che sprigiona la conoscenza': così recita pressapoco Kahlil Gibran.
Nulla mi pare più vero né tanto più tragicamente bello.
Il più autentico modo per amare un proprio simile fino in fondo è riconoscerne ed indovinarne il dolore racchiuso nelle più intime fibre e sentirlo proprio.
Dopodiché -e solo allora, può crearsi il tortuoso passaggio  di uno spiraglio di luce che consenta la condivisione di una piccola ed effimera felicità.
 
*

Quella donna, sicura e stravagante nei suoi tonici 64 anni portati con allegria, bella di quella speciale bellezza che se fossi uomo riconoscerei ed amerei all'istante perché fuori canone e disinvolta, sottratta ai ridicoli cliché, con l'anima vitale che adombra la consueta invasività del corpo, tra le righe mi ha detto: "Mentre accudivo mia figlia quarantenne che moriva di tumore, mio figlio si ricoverava a San Patrignano per liberarsi dalla dipendenza..."

"... ed io, ..., io mio figlio mi arrangio a sognarlo, e ad immaginare quel che fa e che vive, e come piange e ride, e a chiedermi se saprò ancora, se mai quel giorno verrà, far uscire le parole di madre, ché ormai hanno sbiadito musica e senso e mute evocazioni..." le ho risposto.

Non sto meglio, poi, ma almeno ti ho vista, e tu hai visto me.
E per un attimo, che durerà dentro noi per sempre, noi siamo stati due simili, reciprocamente edotti della più pregnante sostanza dell'altro.
A me è questo che preme, sempre e con chiunque.
E' questo che mi serve, che mi manca: la dialettica emotiva.
Non più trasparenti, non più irrilevanti, non più inutili né soli.


*



 

4 commenti:

  1. Il dolore rivelatore, il dolore comunicatore.
    Dici di apprezzare profondamente la frase di Gibran, però scrivi anche "se soltanto potessi, ne farei tranquillamente a meno e non mi sentirei per ciò depauperata di neppure un grammo della mia umanità". Il dolore non va mai "celebrato" (sebbene molti faciloni celebrino quello altrui), tantomeno ricercato. Chiunque sperimenti il dolore dovrebbe esserne estraneo, eccettuate varie forme di masochismo. Però il dolore lascia il segno e senza farne esperienza la tua umanità permarrebbe intatta (forse), ma certamente diversa, probabilmente meno profonda, perché il dolore scava peculiari filoni dell'anima (poco importa che la trivella sia fisica o psicologica).
    Penso che senza la lente (d'ingrandimento percettivo) del dolore quelle due donne non potrebbero "vedersi" così bene nel loro breve dialogo. Reputo il dolore un'acutezza di vista penetrante della quale farebbero volentieri a meno, per come l'hanno ottenuta, sudandosela loro malgrado. Ma tant'è: il dolore modifica eccome la nostra sensibilità di pesatura degli eventi, e con essa muta la nostra "umanità".

    Riguardo la democraticità del dolore, penso che il dolore sia correlato alla sensibilità, ovvero alla capacità di provarlo. Essendo gli umani per loro natura diversamente sensibili, la stupidità è forse l'unico antidoto certo al dolore. Almeno nella minore capacità di soffrire, la Natura compensa coloro ai quali ha elargito minore sensibilità. Anche ciò, se ben colgo la natura dei tuoi post, è un dato di fatto da mettere sul tuo personale bilancino: tu molto soffri perché molto sei sensibile. Si potrebbe definirla una rivendicazione laica del cristiano "Le è perdonato molto, perchè molto ha amato".

    So di ripetermi, ma coi tuoi molti chili di sovrappeso, non sarà certo un dramma se metterai su qualche etto in più d'armatura di pazienza, causa mio disco rotto: le tue righe sono sempre preziose, in ogni microgrammo.

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    1. Caro Kisciotte, innanzitutto grazie, in special modo per il riguardo che mi usi nell'adottare una lettura così attenta e precisa.

      Hai ragione, naturalmente, quando fai scaturire dalla stessa sorgente il 'troppo soffrire' ed il 'troppo amare', in qualsiasi accezione dei termini noi si voglia intenderli.
      Quella sorgente non si sceglie né si modifica: è in noi connaturata.

      Così, la nostra disperata vitalità, le lacrime e la gioia, l'intero nostro sottosuolo, paure, lacrime e speranze, resteranno pressocché sconosciute ed incomprensibili al mondo intero, tranne in sparute e fortunate casuali convergenze di affinità.
      Neppure la volontà di incontro, generalmente, senza di esse può scalfire il duro involucro che tiene serrata in noi la nostra stessa enorme abilità nel soffrire.

      Un affettuoso saluto.

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  2. Ho letto molto di questo blog, e dell'ostinazione, della consapevole ostinazione, del trovare (meglio del voler ritrovare) l'assoluta risoluzione. Anche nella stessa (consapevole) assenza. Ho letto molto di questo blog, anche risalendone alle origini della scrittura, scorgendone dissonanze apparenti e concordanze pratiche.
    E' una scrittura intensa, fluida, articolata persino anche nella monotematicità di ciò che è posto essere centrale per e all'esercizio che la scrittura vorrebbe afferrare. Persino banale quando l'amore è accostato al dolore, soggetto e rappresentazione sempre ossessivamente alla ricerca di quella coniugazione ormai persa, poichè frutto ognuno di quella separazione che ci fa pronunciare infaticabilmente la parola IO. E così sia.
    Bella scrittura.
    Con esercizio di stima nel nostro blog. Dove sarebbe un privilegio poter ospitare tuoi scritti e pensieri.

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    1. Ringrazio -un po' confusa-, della stima e dei giudizi nel merito, nonché semplicemente della lettura.
      Mi riserbo di dedicare -non appena a me possibile, data la momentanea avarizia del mio tempo- di conoscere il tuo certamente interessante blog.
      Con vera cordialità.

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