giovedì 8 luglio 2010

Voltaire

Storia di un buon bramino
(1761)
Incontrai nei miei viaggi un vecchio bramino, uomo di grande saggezza, spirito e sapienza. Per di più era ricco, e di conseguenza più saggio ancora, poiché, non mancandogli nulla, non aveva bisogno di ingannare nessuno.

La sua famiglia era benissimo governata da tre belle donne che si studiavano di piacergli, e quando non si divertiva con loro, egli si occupava di filosofia.

Un giorno il bramino mi disse: “Vorrei non essere mai nato”.
Gli chiesi il perché ed egli mi rispose: “ Studio da quarant’ anni e sono quarant’ anni perduti: insegno agli altri e ignoro tutto. Questa condizione mette nel mio animo tanta umiliazione e disgusto da rendermi insopportabile la vita. Sono nato, vivo nel tempo, e non so che cosa sia il tempo; mi trovo in un punto fra due eternità, come dicono i nostri saggi, e non ho la minima idea dell’ eternità. Sono fatto di materia; penso e non ho mai potuto sapere che cosa produce il pensiero; ignoro se il mio intelletto sia in me una semplice facoltà come quella di camminare e di digerire, e se io pensi con la testa così come io prendo con le mani. Non soltanto il principio del pensiero mi è ignoto, ma mi è egualmente celato il principio dei miei movimenti: non so perché esisto. Eppure ogni giorno mi vengono poste domande su tutti questi punti: bisogna rispondere, e non ho nulla di buono da dire; parlo molto e rimango confuso e vergognoso di me stesso, dopo aver parlato.
E peggio ancora è quando mi chiedono se Brama sia stato prodotto da Visnù o se siano entrambi eterni. Dio mi è testimone che non ne so una parola: lo si capisce bene dalle mie risposte. “Ah! Reverendo padre, mi dicono, insegnateci come mai il male allaga tutta la terra.” Sono imbarazzato come coloro che me lo chiedono, e a volte rispondo che tutto va per il meglio. Ma chi è stato rovinato o mutilato in guerra non ci crede, ed io neppure: mi ritiro allora in casa oppresso dalla mia curiosità e dalla mia ignoranza. Leggo i nostri antichi libri, e le tenebre infittiscono in me. Parlo ai miei compagni: gli uni mi rispondono che bisogna godere la vita e infischiarsi degli uomini, gli altri credono di sapere qualche cosa e si perdono in idee stravaganti: tutto aumenta il sentimento doloroso che provo. A volte sto per cadere nella disperazione, quando penso che dopo tutte le mie ricerche non so da dove vengo, né chi sono, né dove andrò, né che sarà di me.”

Lo stato di quel buon uomo mi fece veramente pena: nessuno poteva essere più ragionevole e sincero di lui. Pensai che tanto maggiore era la sua infelicità quanti più lumi aveva nell’ intelletto e sensibilità nel cuore.

Lo stesso giorno vidi la vecchia che abitava nelle vicinanze e le chiesi se si fosse mai sentita triste di non sapere come fosse fatta la sua anima. Non capì nemmeno la domanda: mai per un attimo della sua vita aveva riflettuto su uno solo dei punti che tormentavano il bramino: credeva alle metamorfosi di Visnù con tutto il cuore e, purché avesse ogni tanto acqua del Gange per lavarsi, si credeva la più felice delle donne.

Colpito dalla felicità di quella povera creatura, tornai dal mio filosofo e gli dissi: “Non vi vergognate di essere infelice mentre alla vostra porta c’ è un vecchio automa che non pensa a nulla,e vive contento?”
Avete ragione – egli rispose-, mi sono detto cento volte che sarei felice se fossi sciocco come la mia vicina, e tuttavia non vorrei una simile felicità”.

Questa risposta del bramino mi fece più impressione di tutto il resto; esaminai me stesso e vidi che in effetti non avrei voluto essere felice a costo di essere imbecille.
Proposi la questione ad alcuni filosofi, e furono del mio parere.
“Eppure, –dicevo- , c’ è una contraddizione stridente in questo modo di pensare”. Poiché, insomma, di che cosa si tratta? Di essere felici.
Che importa essere intelligenti o sciocchi? E c’ è di più: chi è contento del proprio stato è ben certo di essere contento, mentre chi ragiona non è altrettanto certo di ragionare bene.
“E’ chiaro, comunque, -dicevo-, che bisognerebbe scegliere di non avere il senso comune, per poco che questo senso comune contribuisca al nostro malessere.”
Furono tutti del mio parere, ma non trovai nessuno che accettasse di diventare imbecille per essere contento. Conclusi quindi che, se la felicità ci sta a cuore, ancor di più ci preme la ragione.
Ma, riflettendoci, pare insensato preferire la ragione alla felicità.
Come può spiegarsi, allora, tale contraddizione?

Come tutte le altre.
Se ne può ragionare all’ infinito.
***
Ipotesi prima: gli umani hanno in dotazione biologica l' arte dell' ossimoro vissuto. Se ne crogiolano e ne godono.
Ipotesi seconda: scegliere è un' illusione. Si tratta del verbo più bugiardo in assoluto presente nella nostra lingua.




1 commento:

  1. Ipotesi terza: scegliere di arrivare in fondo alla lettura di questo post è un atto di sincero masochismo. :D
    Perciò - e per fortuna - irrinunciabile.

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