lunedì 11 aprile 2016

Tipi -23- I comunicatori

Ci sono quelli che s'illudono idealmente ed ostinatamente sulla possibilità salvifica della comunicazione e ci sono quelli che dicono cose, a prescindere da ascolti o contraddittorio, in un voluttuoso esercizio di vocalizzi, fonemi, grafemi, pixel, autoerotismo cerebrale ed amor di sé malcelati.
(... povera carne, sempre demonizzata, così colpevole di mille cedevolezze e lascivia; poveri sensi, sì platonicamente disprezzati, forieri di irrimediabile dannazione e marcescenza dell'anima, cui si contrappongono conoscenza, ragione e virtù, capaci di elevare a ben più desiderabili Olimpi...: pur senza speso specifico i vizi dell'intelletto e della coscienza son capaci, invece, di superare in empietà qualsiasi misfatto)
E' tramontata la Filosofia, restano schegge di luoghi comuni, velleitarie ideuzze sgualcite dalla macina dei compromessi, frustrazioni per le possibilità perdute per sempre.)

Per qualcuno, ciò rappresenta la questione, il fulcro dell'esperienza vitale, la sintesi ultima degli innumerevoli respiri dell'esistenza.
Comunque sia, da che cosa, esattamente, la comunicazione saprebbe salvare?
Dall'isolamento, dallo strazio della solitudine, da un fatale e purtuttavia patito solipsismo?

Ecco sì: questo, potrebbe.
Ma non è mai.

Mortale, come qualsiasi altra attività umana, la comunicazione di cui siamo capaci è solo ed ancora mercantile: se non ripaga, se non arreca alla fine utilità/piacere personali in qualche forma, acconsentiamo,  con l'implicita ignavia che ciò richiede, alla sua estinzione.

Voltaire s'era illuso: non è il Pensiero che l'Uomo ama, ma bensì la vanità di sentirsene sommo depositario e scambiatore. Anche questo, d'altronde, è sconsolatamente effimero e cederà il posto alla più dolorosa consapevolezza del vuoto e dell'assenza di qualsivoglia senso.

*
 
Sono condannata all'ermetismo, non c'è scampo, lo so, perché per nessuna ragione al mondo mi piegherei al piagnisteo o al vittimismo di quest'epoca in cui comunque  i motivi per piangere e per riconoscersi vittime abbondano.
Ho perso le forze psico-fisiche per continuare con il mio antico vigore prometeico ad affrontare la mia stessa piccola vita viziata da ingerenze ostili e superiori, infinitamente stupide, contro le quali non posso nulla.
Comunicare era vitale ed ora è diventato inutile: abominevole.
Chiedo venia: sono troppo umana. O troppo poco. Non lo so più.
 
 



8 commenti:

  1. https://youtu.be/t6BoTRrGTf0

    Stefano

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    1. Ciao, Stefano caro (fammi sapere come stai).
      Non trovi anche tu abbastanza stupefacente il modo in cui il professore proclama ovvietà?
      Perché non abbiam fatto pure noi i filosofi-opinionisti stipendiati?
      E, soprattutto: è nato prima l'uovo o la gallina?
      :-)

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    2. Ciao cara Morena,

      si ti scriverò. Galimberti non mi sembra affatto uno stupido (scopiazzature a parte! :-) Qui segnala il dissidio tra la necessità della comunicazione e il suo impedimento nella società dell'unificazione del linguaggio nel segno univoco della tecnica.

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    3. Sì, certo, ma a me pare scontato.
      Non penso sia stupido: mi pare normodotato ed abbastanza furbo ;-)

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    4. Sì, è scontato in quanto evidente, ma un dissidio evidente non placa il suo morso.

      In ogni caso comunicare è una modalità di impiego della parola che resta come strumento autonomo. Occorrerà salvaguardarla, fuori o dentro l'artificio perché la parola è essa stessa artificio. Occorrerà deporla come un fiore umile di campagna affinché qualcuno ascolti. La parola che vibra, al di fuori delle sabbie, suscitatrice di quell'ascolto, appunto, che resta una delle principali carenze dell'oggi.

      Stefano

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  2. Comunicare è un verbo transitivo, dipende poi da cosa transita. Credo che scriverne, entro certi limiti, aiuti a chiarirsi le idee, anche se l'espressione risulta ermetica. Dalla comunicazione non è scontato che derivi poi cultura, condivisione logica, scienza e coscienza, può accadere che ne nasca il contrario di essa cioè la morte della comunicazione.
    Non penso che comunicare sia inutile sic et simpliciter, può esserlo in determinati contesti e in determinati momenti... vorrei anche dirti che la scrittura resta, letta o non letta, compresa o meno, diffusa o isolata, la scrittura resta. Se tra un anno ripasso e queste pagine sono ancora leggibili, tu resti. Ed è un'occasione in più.

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    1. Esatto, sì: dipende "da cosa transita", perché se la pur inconsapevole intenzione è quella di farsi centro, lenire sofferenze sotterranee e personali, autocelebrarsi, la comunicazione è solo fittizia, come s'è già scritto da Massimo, a proposito del fallimento dei blog.
      Selezionare con grande scrupolo è la sola via per recuperare il senso.

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  3. Io seleziono con un certo scrupolo e con una logica strettamente personale, se incontro scrittura decente mi fermo, se, accanto ad essa, vi è sostanza sigillo la mia attenzione. Il problema dell'esibizionismo e del narcisismo cui fai cenno è comune a tutti i blogger: nella misura in cui tali componenti si manifestano o vengono esaltate c'è la logica della mia selezione. Esiste anche un problema di tempo, durante quale lasso di tempo certe pagine mostrano veramente l'essenza di quel blogger, quando la vena si esaurisce? Per questo pongo l'accento sul valore eterno della scrittura: essa definisce e dà modo di analizzare anche fuori da stimoli troppo pressanti e contingenti, la scrittura è seria anche quando non lo è. Se questo fosse il tuo ultimo articolo in assoluto e tu lasciassi il blog "aperto" io potrei anche a distanza di anni tornare a leggere ciò che hai scritto da sei anni in qua. Fuori da quel tempo, fuori da questi commenti e soprattutto fuori dal rischio di una autocelebrazione. In quel contesto viene fuori veramente Sirio, ella si salva o soccombe senza frizzi, cinquettii o eleganti e elitari defilee. Ai posteri.

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