sabato 17 dicembre 2016

Tipi -26- gli inconcludenti.

Ma perché non ammetterlo, su: siamo cagionevoli, gravemente, sia di contenuti razionali ed effettivamente coinvolgenti da scambiare nelle nostre relazioni private, che di effettivi sentimenti.
Noi umani, tolte rarissime eccezioni, siamo al massimo capaci di qualche premessa, di tanto in tanto. Negli scambi, di qualsiasi tipo ma in particolar modo amorosi ed amicali, siamo  interessanti e motivati, quindi partecipi, solo agli esordi, dopo di che, e rapidamente, i nobili e belli afflati ispiratori si sfiatano.
Abbiamo un'attitudine innata nel deludere ed  una propensione masochista nel consentire all'altro di recarci delusione.

Le amicizie adolescenziali, di cui ho ancora memoria ed il cui ricordo, custodito nelle più segrete stanze dell'anima, riaffiorando mi addolcisce ancora di malinconica nostalgia, almeno un decennio l'hanno retto. E' perché erano, in quel preciso momento storico e formativo, completamente vere, pur se ingenue.
Eravamo, allora, tutti interi: amori, politica, passioni, giochi, utopia, studio,   stavano ospitati in ciascuno  stretti stretti, intrecciati senza fratture e senza la vergogna delle bieche contraddizioni e della viltà che oggi amiamo giustificare come necessità imposteci dal tentativo di sopravvivere.
Ma che c'entra, poi, la sopravvivenza fisica con l'integrità interiore, con la volontà -lieta ed incontrastabile- di salvare e coltivare relazioni significative e belle?
Con ogni probabilità, bisogna però puntualizzare, è il concetto stesso di "bello" che differisce in modo decisamente divisivo tra individui, e ciò che costituisce la vera discriminante tra di essi è l'attitudine (almeno l'attitudine) alla virtù, la propensione -innata- ad una certa compattezza e saldezza dell'anima, che influenza in massimo modo anche il conseguente e correlato concetto di "piacere".

Porre da sempre, ed a ragione, il piacere in cima alle nostre priorità, per esempio, non ci ha ancora insegnato a riconoscerlo per quel che davvero è e figuriamoci, di conseguenza, quanto sia improbabile il provarlo.
Sappiamo, al massimo, sfiorare l'eccitazione, o meglio, piuttosto, raggiungere innumerevoli volte sempre le solite, prevedibilissime eccitazioni consuete, le quali, tuttavia, com'è insito nella loro natura un po' precaria ed infantile, scemano presto, destinate alla dimenticanza.

Sarà che il vero piacere sta nell'assenza del desiderio, nel non necessitare di alcun bene oggettivo da rapinare all'altro perché si è totalmente sintonizzati con la propria coscienza e paghi della propria personale, unica, irripetibile ed onesta pienezza,  sarà, di conseguenza, che è appannaggio di coloro che hanno dedicato la maggior parte delle energie esistenziali cercando senza sosta segretamente di conoscere se stessi senza lode ma anche senza ignavia per dirsi almeno veri, sarà che ciò non rappresenta un elemento di scambio in un mondo in cui i più si prostituiscono, emettono parole insincere e vuote, hanno un cuore inaridito e fiacco,  o cercano un qualche tornaconto, ma io non ho incontrato mai un solo essere umano così esigente e libero da pretendere di raggiungerlo fino in fondo.


martedì 15 novembre 2016

Tipi -25- Gli approdati pentiti.

E poi ci sono quelli che tornano alla Natura e finalmente si abbandonano, estatici, tra le sue materne braccia.

Quelli che scoprono i tramonti della Val d'Orcia, la bellezza inconfutabile della saggia ignoranza di persone semplici, del cibo sano e frugale -slow, slow food- la maestosità delle querce centenarie e la religiosa pace dei campi d'ulivi e delle vigne di sangiovese.
Nel loro poderuccio ristrutturato.

L'aere è tiepida, le colline una pittura soave: come dune del deserto arricchite da sfumate policromie  d'ocra, terra senese e verde,  invitano a pensieri ed esistenza soffice e grata; forse esiste Dio.
Hanno adottato due cuccioli orfani di riccio rinvenuti tra gli arbusti della macchia mediterranea -il loro boschetto intorno a casa-: musetti irresistibili, che dolcezza, quanto amore.

Forse, pentiti, si convertiranno al veganesimo, come Pitagora. Si asterranno anche dal consumare fave (così, per massima coerenza).

Ne deriva loro una neppure tanto sotterranea spocchia, una serpeggiante presunzione malcelata di detenzione di un merito oggettivo (chissà quale, chissà perché, ma certo ci deve essere).

Prima dell'approdo han vissuto in grandi città, lavorando e lavorando, correndo da mane a sera.
Erano dirigenti d'azienda o di banca, capo-redattori di agenzie pubblicitarie, avvocati e commercialisti affermati, e così via. 
Conniventi e complici del Capitale, corresponsabili del proprio ed altrui inferno, alla fine si son comprati pure il paradiso.

lunedì 7 novembre 2016

Tipi -24- i sarcastici

Sarcasmo ed ironia, con un pizzico di nichilismo e qualche escursione di cinismo, vanno per la maggiore: una moda virale piuttosto democratica, dato che imperversa in ogni luogo-tempio preferito dalla massa (la quale, com'è noto, tende all'acefalia).

Dalla moglie del mio barista - fulgido esempio di individuo ortodosso ma smisuratamente velleitario- al più scafato blogger di successo (nella blogosfera il successo è un fenomeno stranissimo che da una parte si ottiene per via di caratteristiche proprie -che evidentemente piacciono ai più o comunque provocano reazioni emotive agli stessi, spesso grazie ad un riuscito afflato populistico - e dall'altro per effetto mimetico, come succede per la maggioranza dei comportamenti umani), il sarcasmo pare l'arma preferita da impugnare contro l'infelicità, la quale quasi sempre coincide con la frustrazione ed il risentimento.
Che altro è, d'altronde, l'infelicità, se non il terribile sospetto d'essere così miserevoli ed irrilevanti da meritare fino in fondo, a pieno titolo, il martirio di un'inguaribile solitudine?

Ora, sia chiaro, lo capisco: è molto, molto umano, pur se non elegante né costruttivo, pur se ironia e sarcasmo sono terribilmente decadenti ed improduttivi.
La vera forza  deve stare nell'accanimento.
Un'accanita, testarda, ossessionante coerenza nella ricerca del (proprio) bello.
 

lunedì 26 settembre 2016

schiavi si nasce

Non c'è alcun dubbio che il lavoro salariato in particolare sia l'esatto corrispondente moderno della schiavitù antica, di cui perfino Seneca, seppur  prima di filosofo usuraio, s'indignava.
Ora s'è aggiunta qualche nuova sfumatura peggiorativa: il micro-imprenditore (questo alieno incomprensibile di cui nessuno, in assoluto, si occupa, circondandolo di un'aura misteriosa e di sospetto giacché egli, per definizione, è un evasore fiscale anche quando non produce in realtà un reddito tassabile) è più schiavo del salariato-schiavo. Non può neppure ammalarsi come tutti, né figliare, né riposarsi una settimana l'anno a cuor leggero: rischia il fallimento e la fame.

Non c'è neppure minimo dubbio sull'oggettiva casualità della nascita in questa o quella condizione: schiavi si nasce e ci si rimane e, da quando esistono capitale e  democrazie, difficilmente un padrone potrà mai vedere le sue sorti ribaltate come fu per  Ecuba, e Creso, e la madre di Dario, e Platone, e Diogene.

La vera schiavitù è quella volontaria, del vizio, ci ammonisce i filosofo.
Dunque, Maestro, io sarei schiava soltanto della mia detestabile abitudine di fumare?
E' solo un dettaglio, invece, che alla mia venerabile età io mi ritrovi ad annaspare per tenere in piedi questa minima impresa che ho creato senza il sostegno di nessuno, che mi fornisce il pane e non il companatico, che mi ha sottratto il tempo per esercitare la mia umanità e leggere, incontrare persone, contemplare ciò che è bello, ogni tanto ridere di gusto e perfino  amare?

Il fato, si sa, è invincibile.

Una cosa è certa: se vivessimo in un Paese appena civile, dovrebbero quanto meno provvedere a farci recapitare a casa il kit di barbiturici, sapientemente dosati, per un'uscita dignitosa e pulita da questo vergognoso ed indifferente sistema, con la stessa solerzia con cui i governi nordeuropei forniscono i pannolini alle mammine svedesi e norvegesi.

lunedì 5 settembre 2016

Appunti antropocentrici -7- (autocoscienza)

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I mea culpa

Aveva  poco da ravanare idealmente tra i loro presunti tendaggi emotivi ed intellettuali: oltre le grigie e polverose coltri  il più delle volte non c'è proprio nulla di degno di nota o di stima, non c'è alcun tesoro celato, e lei, che in  fondo l'aveva sempre saputo ma si ostinava a non ammetterlo, non ci faceva una bella figura con se stessa, dato che, ancora una volta, aveva inconsapevolmente preferito proteggere per lungo tempo la sua sensibilità ed i suoi vaneggiamenti con un auto-inganno.
Di un po' d'ignavia, dunque , era colpevole. Ecco perché si puniva tanto.

°
La caduta dei veli

Le successe mentre Young cantava "Pocahontas", sottofondo musicale di una mattina di fine agosto, mentre lavorava nella sua bottega.
C'è chi viene folgorato sulla via di Damasco e chi dai richiami personali e tortuosi in qualche modo collegati ad una canzone di un Canadese.
Fu lì che riuscì a focalizzare il nucleo e la ragione profondi del duro sentimento di dolorosa inadeguatezza e malinconia che la accompagnava in ogni istante da quando era bambina.

La sola fase di tregua -ricordava- le era occorsa durante l'adolescenza, l'età dell'esaltazione e del sentimento fasullo di immortalità. Rammentare quanto fosse riuscita ad essere presuntuosa, arrogante, egocentrica e supponente, e di conseguenza perfino un po' felice,  in modo del tutto naturale e spontaneo, in quel breve periodo, la lasciava ancora stupefatta.

Il suo nichilismo di adulta, poi, la sua accanita malinconia,  altro non erano che una presa d'atto della semplice realtà: qualcosa di enorme ed orribile, spaventosamente potente, invincibile per le sue provate povere forze di individuo solo, era seriamente intenzionato a dissipare non solo la sua originalità, la sua volontà, i suoi eventuali talenti, ma anche e soprattutto, con indicibile cinismo,  la sua anima.
E' questo che il Sistema aveva fatto a tutti quanti, ma i più non se n'erano accorti, o ne avevano sottovalutato la portata distruttiva.
Non un solo aspetto della propria vita, neppure quello intimisticamente sentimentale, rimane indenne salvandosi dalla sua maledetta tossicità e non c'è tempra che non sia disumana che possa a lungo evitarla. 
E lei, che aveva rinunciato a cose, status, garanzie, a seguito di varie vicende personali, ma che per nessuna ragione al mondo avrebbe perduto la sua autenticità d'umana, non voleva smettere di dirlo, in attesa di sapere che cosa cominciare a fare.

 °
La nostalgia più intensa non aveva nulla a che fare con il passato.
Riguardava, semmai, persone ed accadimenti mai conosciuti, che lo scippo del futuro subito sanciva definitivamente come impossibili.

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sabato 20 agosto 2016

Piccola anima smarrita e soave -4-

Dunque, mi pare, la cosa veramente bella, nel sostanziale fallimento di un'umanità velleitaria ed ottusa, è l'ingenuità fanciullesca di certi adorabili commoventi intellettuali dell'ultimo secolo, così prometeici e romantici da insistere indefessamente nel ribadire l'eroismo di ogni uomo manifestato con il semplice vivere.
 
Eppure, non c'è alcun eroismo senza la contemporanea consapevolezza profonda dell'assurdità della nostra stessa vita, ed io dubito molto che tale consapevolezza sia diffusa.
Vedo, invece, tutt'altro; noto, piuttosto, il contrario.
A me pare che la schiacciante maggioranza delle persone s'inganni nel profondo e deliberatamente (ma forse inevitabilmente per carenza di spirito) si ritenga depositaria di un qualche scopo, che di solito si esaurisce nel rivestire un qualche ruolo.
 
Vivere della sola propria essenza, straziati dall'angoscia d'essere immersi non solo in un determinato sistema umano, ma anche in un più vasto tutto cosmico sostanzialmente assurdi, e tuttavia tener vivo, dentro sé, il fuoco sacro di una coscienza buona e di un'anima bella,  è certo uno sconfinato eroismo.
 
E però, per amore di giustizia, quantomeno, si dia a Cesare quel che è di Cesare, ché le magnanime generalizzazioni alla lunga offendono.
 

martedì 2 agosto 2016

Appunti antropocentrici -6-

Da anni galleggio sull'apice emerso di una sorta di iceberg, gettando di tanto in tanto senza più troppa nostalgia lo sguardo sul resto del  mondo oltre le gelide acque.
Noi cavalieri di iceberg, tra l'altro,  possediamo la  non comune abilità di sembrare d'esserci dove non siamo.
Non ho tuttavia smesso di desiderare la terraferma, il profumo dell'erba e dei fiori, il tepore di altre presenze animali, ma semplicemente so d'essere ormai incapace di forzare l'ennesimo processo di adattamento tutto sommato ipocrita ed inutile, perché comunque quegli oggetti di desiderio sono vagheggiati sotto il filtro di un'aura romantica, inesistente nella realtà.
Ogni meccanismo, dopo un po' di intenso vissuto, ci diventa noto e prevedibile, e ad un certo punto  non rimane più nulla da reiterare senza provare anche la netta sensazione d'essere un idiota dalle ricadute seriali.
Forse e molto probabilmente succede più facilmente a chi tendeva all'idealizzazione della vita e, poco aristotelico, non è mai riuscito a conquistare il pacificante senso della medietà.
C'è chi prova  pudore a mentire a se stesso e troverebbe comunque più ripugnanza nel fare questo piuttosto che nello  scoprirsi idiota, ed allora tanto vale sancire la sconfitta, o l'impossibilità del sogno.

Nel frattempo, pur nell'ineluttabilità conclamata di questo stato, anche sull'iceberg giungono indirette e continue conferme di come sia in fondo solo eufemistico ritenere che il nostro auto-esilio sia una libera scelta.
E' una fatalità, è il destino.

Nei confronti di qualche individuo, occasionalmente ormai, provo una cauta simpatia: quando succede mi pare, sulle prime, tutto sommato un buon diavolo, ma poi non riesco ad arginare in alcun modo lo smottamento penoso verso la delusione che la classica frase fatta comune, l'espressione un poco  turpe, il narcisismo inconsapevole affiorato in superfice, la smascherata meschinità degli intenti, la propensione all'utilitarismo egoistico e la vacuità del suo spirito rivelata dall'interesse esclusivo verso una qualche forma di gretto edonismo con conseguente terrore anche per la minima sofferenza morale, che puntualmente gli sfuggono dal controllo e si palesano, mi causano mio malgrado.
Che pena. E -naturalmente- che noia.
Se non fosse che non lo siamo abbastanza a fondo, purtroppo, io vorrei dire a tutti coloro che mi attraggono inizialmente a livello istintivo come potenziali amici  "ti prego, non farlo anche tu, ti prego... non tatuarti, non dire mai 'bella ragazza', non postare tuoi autoscatti, non dimostrarti servile e non venerare alcuno -neppure se degno della massima ammirazione-, non imitare chi non sei tu, non ricorrere sempre alla bassa seduzione ormonale, non dire troppo per non dire niente, non considerare naturale nessuna delle infinite e serpeggianti liturgie del vivere sociale..., ti prego, ti prego, ti prego...".
Non ne ho né il diritto né il dovere, però, ed allora tanto vale lasciare che sia la deriva naturale a provvedere e risolvere.


 

mercoledì 22 giugno 2016

Crisi di n...

Mi sto chiedendo, molto sommessamente, tra me e me, e del resto svogliatamente da annoiata terminale quale mi sento, se sia io stessa rea di qualche colpa ed insufficienza che l'autocritica non sa disvelare sì da non aver ancora colto le più significative sfumature della vita di relazione tra gli umani o se, invece,  la noia letale che da tali relazioni me ne deriva non sia altro che un espediente per soffrire un po' di meno nel sentenziarne la sostanziale impossibilità di reale vicinanza e compassione.

La noia, che è prerogativa tutta umana, agli esordi, nell'esistenza,  sfiora dapprima con una certa levità, simile alla puntura di una zanzara, irritante ma non letale, ma via via, inesorabilmente e senza fretta, in implacabile costante progressione, aumenta la pressione e poi dilaga in modo infestante, sposandosi infelicemente con la parallela capacità di visione lucida e schietta delle persone e degli accadimenti.

Rimane, comunque, un grande privilegio, un privilegio, diciamo, dannato, un po' come lo è anche la compagnia fedele e perenne della malinconia nella propria vita, un privilegio dal prezzo altissimo in termini di solitudine.

Non ho mai conosciuto nessun mediocre realmente annoiato ed ho conosciuto un'infinità di persone, invece, di tanto in tanto lamentose per via di qualche impedimento materiale alla realizzazione di uno dei quei loro sogni miserevolucci bastevoli a riempire la vita, quale la gita fuori porta, la vacanza a Sharm, la borsa griffata, il mutuo casa da pagare, l'ottenimento di riconoscimento ed ammirazione da parte dei loro simili (e sottolineo simili), il possesso dei più disparati oggetti, delle più disparate dimensioni.

Quel che la Noia testimonia, infatti, è l'impossibilità di aderire alla pratica della comune riduzione della propria esistenza nella ricerca di piaceri grossolani, mercantili e volgari, ma anche più nobili -in fondo-, ché di soli piaceri si vive comunque in modo parziale.
Da ciò ne deriva la sua grande impopolarità.
Lo sguardo di chi ti scopre annoiata nel profondo è dapprima di riprovazione e poi di terrore, e lo sguardo dell'Annoiato Supremo non può che essere, di rimando, di disgusto.

La grande sfida, il sogno degno d'esser perseguito, è alla conclusione dell'Ivan Il'ic, pur se quello che egli ha sconfitto era la paura: la luce in fondo al tunnel, la consapevolezza un istante prima della fine.
In fondo non può essere che sia solo la nausea la reale conquista umana.

Tutti i miei conoscenti mi annoiano, e poi anche tutti i miei amici, i miei parenti, i miei ex, i miei ascendenti ed i discendenti.
Prima di annoiarmi, tutti, mi hanno ferita oppure delusa, ma solo perché sono incorsa nell'errore di sopravvalutarli, peccando di buonismo ed ottimismo.
I più hanno mentito e millantato su ciò che erano; gli altri credevano davvero d'essere ciò che non erano.
Senza questa mia debolezza di valutazione, mi avrebbero annoiata fin da subito, perciò mi assolvo, perché di qualche illusione ho pur dovuto vivere.

A dismisura, mi annoia, con atroce sofferenza, il male del mondo, l'ingiustizia, la prevaricazione sociale, la ricchezza e la miseria, i bambini morti spiaggiati, gli animali torturati, lo schifo che la nostra specie è riuscita ad inventarsi da quando è comparsa sulla Terra (rimpiango l'etica dei dinosauri), e mi annoia, con odio feroce, chi sul male ci campa e ci sguazza, dai capitani d'azienda, ai lavoratori che desiderano le loro insulse merci, ai blateratori di democrazie, ai giornalisti griffati, ai preti bugiardi, ed agli ignavi tutti.

Ed ora basta, ché mi son venuta a noia.

 

lunedì 16 maggio 2016

Annottando

Ma che cosa farei se avessi vero possesso della mia vita, se ne potessi disporre in piena libertà, se questa pietra di dolore ed orrore per la consapevolezza d'essere un individuo di fatto schiavizzato, di vergogna e frustrazione  per la coattiva appartenenza alla mia stessa specie che ha consentito tutto questo, che opprime il petto in ogni istante della veglia, per prodigio si sbriciolasse?

Senza strada ideale da percorrere, rimango, molto mestamente, bloccata, nello sciupio di un'esistenza appesa al capestro della sopravvivenza materiale: ad oggi non c'è nulla, assolutamente nulla, di degno d'essere sognato e perseguito, perché, similmente, niente e nessuno saprebbero prescindere seriamente ed effettivamente dagli stilemi comuni del vivere, con tutto quanto di ipocrita, mediocre, noioso, coercitivo e profondamente ingiusto che essi comportano.
La tirannide della comune filosofia della "normalità" pare invincibile.

Mi sono spesso sentita dire: "... cos'è, poi, la giustizia, se non un'opinione ed un umore? La giustizia è un concetto culturale e fluttuante".
Dissento nel modo più assoluto, e  credo, invece,  di saperlo con una certa esattezza. Il solo mondo giusto è quello in cui innanzitutto i  privilegi sono, molto semplicemente, inconcepibili perché eticamente abominevoli e l'etica stessa è la prima motrice delle azioni umane.
Dopodiché, e solo dopo, ogni singolo umano potrebbe interrogarsi su quale potrebbe essere la sua funzione nel mondo e la sua attitudine alla felicità.
Di fatto, però -me ne rendo perfettamente conto-, l'esortazione all'auto-spoliazione non riscuote mai sentimenti di simpatia.

*
I sentimenti più puliti e commoventi rimangono quelli istintivi ed abbozzati. L'approfondimento, che ci cala nel nostro e nell'altrui abisso, puntualmente li corrompe.
Il nostro tocco è sempre foriero di morte. Perché?







lunedì 11 aprile 2016

Tipi -23- I comunicatori

Ci sono quelli che s'illudono idealmente ed ostinatamente sulla possibilità salvifica della comunicazione e ci sono quelli che dicono cose, a prescindere da ascolti o contraddittorio, in un voluttuoso esercizio di vocalizzi, fonemi, grafemi, pixel, autoerotismo cerebrale ed amor di sé malcelati.
(... povera carne, sempre demonizzata, così colpevole di mille cedevolezze e lascivia; poveri sensi, sì platonicamente disprezzati, forieri di irrimediabile dannazione e marcescenza dell'anima, cui si contrappongono conoscenza, ragione e virtù, capaci di elevare a ben più desiderabili Olimpi...: pur senza speso specifico i vizi dell'intelletto e della coscienza son capaci, invece, di superare in empietà qualsiasi misfatto)
E' tramontata la Filosofia, restano schegge di luoghi comuni, velleitarie ideuzze sgualcite dalla macina dei compromessi, frustrazioni per le possibilità perdute per sempre.)

Per qualcuno, ciò rappresenta la questione, il fulcro dell'esperienza vitale, la sintesi ultima degli innumerevoli respiri dell'esistenza.
Comunque sia, da che cosa, esattamente, la comunicazione saprebbe salvare?
Dall'isolamento, dallo strazio della solitudine, da un fatale e purtuttavia patito solipsismo?

Ecco sì: questo, potrebbe.
Ma non è mai.

Mortale, come qualsiasi altra attività umana, la comunicazione di cui siamo capaci è solo ed ancora mercantile: se non ripaga, se non arreca alla fine utilità/piacere personali in qualche forma, acconsentiamo,  con l'implicita ignavia che ciò richiede, alla sua estinzione.

Voltaire s'era illuso: non è il Pensiero che l'Uomo ama, ma bensì la vanità di sentirsene sommo depositario e scambiatore. Anche questo, d'altronde, è sconsolatamente effimero e cederà il posto alla più dolorosa consapevolezza del vuoto e dell'assenza di qualsivoglia senso.

*
 
Sono condannata all'ermetismo, non c'è scampo, lo so, perché per nessuna ragione al mondo mi piegherei al piagnisteo o al vittimismo di quest'epoca in cui comunque  i motivi per piangere e per riconoscersi vittime abbondano.
Ho perso le forze psico-fisiche per continuare con il mio antico vigore prometeico ad affrontare la mia stessa piccola vita viziata da ingerenze ostili e superiori, infinitamente stupide, contro le quali non posso nulla.
Comunicare era vitale ed ora è diventato inutile: abominevole.
Chiedo venia: sono troppo umana. O troppo poco. Non lo so più.
 
 



lunedì 22 febbraio 2016

Non è colpa della Primavera

Non posso più scrivere quasi nulla per il contorto motivo che aborro anche il solo fievole sospetto e la sbiadita, evanescente, lontanissima ed altamente improbabile idea d'assomigliare, pur solo vagamente ed anche senza saperlo, a tutti quelli là...

... quelli che si parlano ( e scrivono) addosso in un inverecondo orgasmo narcisistico:

quelli che ostentano un'umiltà ipocrita e in verità si crogiolano, unitamente alla loro piccola cerchia di segaioli dell'intellettualismo più o meno spiccio,  nell'illusione di dire (o scrivere) qualcosa di essenziale, artistico, eccellente, rivelatorio:

quelli che delegano il parlare e scrivere al vivere, infilandosi in un'asettica facile scorciatoia: cosa che rivela la relativa comodità della loro stessa vita, tra le altre cose tanto generosa di quel tempo che io non ho più anche grazie al fatto che qualche meccanismo perverso fa sì che esistano persone che l'hanno ed altre no e le prime non se ne indignino neanche lontanamente. Anzi:

quelli che apertamente disprezzano e denigrano i poveri di spirito e gli "ignoranti" e ad ogni occasione li citano con disgusto ed un pizzico di superbia.
Non che io non abbia coloro in odio, sia chiaro, ma certi sentimenti vanno sofferti in silenzio e senza pubblicità, per una mera questione di stile e perché ciò che non nomini non esiste (e non  è questo un sollievo da sottovalutare); se ciononostante lo si fa è alto il rischio che il motivo recondito sia soltanto volgare spocchia.
  
C'è una particolare forma di distacco, ripugnanza e disgusto che nei tipi non violenti provoca la paralisi espressiva: io ne soffro e ciò mi risulta però altamente tossico e nocivo perché la parola era l'ultimo dei piaceri  e l'ultima speranza rimastimi.

E non posso più scrivere perché ho destituito la fantasia, diventata un lusso che non posso  permettermi se non altro per risparmiarmi nuove disillusioni -la fantasia  tanto stridente ed  inutile in questo mio sconquasso personale-,  e giacché era la fantasia che alimentava la fuga dagli orrori e  l'affetto verso l'interlocutore, e senza passione -cioè senza amore- nulla ha più stimolo, interesse, senso, tepore e conforto, io so con certezza che non potrò ricevere né offrire nulla più a livello profondo ed immateriale.
Lo sciamano sentenzierebbe che ho perduto l'anima, ma la verità è che non sa nulla della mia storia, della mia nascita, della fatale appartenenza ad un certo censo, dell'indicibile fatica di essere quel che si è calati nella costrizione di un sistema che non si è voluto, di cui non si ha la minima responsabilità, che reiteratamente umilia sensibilità ed intelligenza, che si è perfino combattuto, politicamente e civilmente, con atti pubblici e privati, fino a che le forze si sono esaurite.

Va bene: sono in una fase di depressione abissale, e  non già a causa di neurotrasmettitori eccentrici e chimica strampalata, ma perché chiunque, sano di mente e fuori dalla normale -normale!- logica egoistica, non potrebbe non esserlo.
Ma nessuno dica che è colpa della Primavera.

"Tutto questo fa schifo. Non parole. Un gesto. Non scriverò più".


sabato 6 febbraio 2016

Lo intravedo, di tanto in tanto, in qualche sua foto.
Ha sempre la camicia di flanella che gli ho cucito io, che adorava e non può dismettere, mentre ignora di tenere stretto il filo non già della memoria, perché lui non ha potuto che dimenticarmi, ma di un'eterna presenza assente.

 
Nessuno potrà mai più convincermi che anche il più abissale dei dolori metafisici non sia altro che un vano esercizio dell'umana risibilità dietro al quale occhieggia sempiterna l'atavica fame di spodestare un Dio, un Dio  qualunque, di un qualunque Olimpo.
 
 
Io volevo soltanto passeggiare lungo altopiani e la sera ricamare teli di lino. Dipingere, per gioco. Ridere con un amico. Volevo provare gratitudine per la fortuna di respirare e vedere ed udire.
Invece ho vissuto. Ho vissuto come tutti questi altri morti.
 
 
 
 


lunedì 4 gennaio 2016

Appunti antropocentrici -5-

Francamente, non capisco più niente di niente, mi sfuggono le dinamiche delle situazioni, private e pubbliche, che mi suggeriscono sensazioni di totale estraneità ed esclusione,  e non comprendo neppure più nessuno, come se avessi perso irrimediabilmente la chiave dell'appartenenza al consorzio umano: più ambisco alla chiarezza ed alla limpida pulizia comunicativa e più mi ritrovo sbarellata ed umiliata negli intenti.
Bisogna tacere, smettere di dare credito alle seduzioni del linguaggio, che è quasi sempre intimamente ipocrita, autocelebrativo ed egoista, determinarsi al fare e al dare, o al non dare e non fare nulla,  senza  più moleste ed inconsistenti chiacchiere?

E poi -a me pare-, mi si è come cementificato lo spirito a forza di errori, disillusioni, irrimediabile perdita di fiducia nel mio prossimo.
Davvero, non ne soffrirei così acutamente se non amassi così tanto e caparbiamente quello schifo di prossimo che non posso più idealizzare per raggiunti limiti di saggezza...

Terribile, la pietosa recita dei rapporti umani: un'intricata perenne acrobazia tra discorsi costruiti con mille parentesi, formalismi, vizi occulti e contraddizioni stridenti,  milioni di imperscrutabili sotterranei personali rinvii, postille, ritrattazioni, alibi. Insomma: un'entropia di significati, bugie, emozionalità, finalità confuse o fin troppo particolari, intenzioni e poi quasi sempre gli inevitabili e da me altamente detestati convenevoli.

Non c'è alcun dubbio, ormai, sulla totale inaffidabilità delle parole: le persone con le quali ne ho scambiate di più sono tutte risultate poi essere propense a scandalose ipocrisie, alla loquela mimetica di intrattenimento più o meno dotto e fine a se stessa, alla spudorata menzogna o  all'inconsapevole auto-raggiro, e più spesso che non hanno pure palesato una sostanziale vacuità.
Non che non sia umano -intendiamoci-: lo è totalmente, decisamente troppo, in modo sciagurato e fatale, ma  io non sono per niente specista e non tendo all'indulgenza, in primo luogo verso me stessa.

Eppure, nonostante l'amarezza, nonostante la frustrazione, nonostante il persistente disgusto, è per il dovere dello stare al mondo che il linguaggio ci è indispensabile.
La variabile, in questa missione,  è il mondo, vale a dire la vita fuori di noi: quello adatto va cercato, e poi trovato, a tutti i costi, con il dispendio di ogni forza, pena la totale dispersione di sé.