domenica 26 gennaio 2014

Ti ricordi, Sandro.

A tredici anni, ricordo, la zia mi portava con sé, nel mese di luglio, a Jesolo Lido, per una quindicina di giorni. In cambio, mia madre e mio padre ospitavano per pranzo lo zio che rimaneva invece in città un po' con il pretesto di dover lavorare e un po' perché la villeggiatura da spiaggia, probabilmente, lo avrebbe annoiato a morte.

Per forse tre anni, quindi - ché poi 'sta consuetudine estiva ebbe termine -, io lì incontravo un ragazzo diciottenne, proveniente da una provincia del vicentino, in vacanza con la famiglia, che, secondo le mie ancora acerbe valutazioni di allora, era la copia sputata di Orfeo,  con il fisico però di un dio dell'acqua (tanto si trovava a suo agio in mare) e comunque con  la capacità di incantare gli animali: gli bastava accarezzare un micetto per farselo amico eterno e non toglierselo più di torno.
Credo di non aver mai più visto un sorriso tanto disarmante e bello quanto il suo.
Confesso che entrambe queste sue prerogative me lo facevano apparire oltremodo attraente (ché a tredici anni la superficialità è ancora concessa) ed io l'amavo segretamente di quell'amore che pare ucciderti, tanto è violento, totalizzante ed infelice - per sua stessa propria masochistica ed ascetica determinazione, dato che non lo si vuole vivere nel reale soprattutto a causa di una certa dose di vile terrore nel varcare la soglia misteriosa ed inquietante che segna l'abbandono inappellabile dell'infanzia -.

Lui non lo seppe mai, anche se mi stava sempre intorno e sacrificava spesso le sue serate jesolane potenzialmente gaudenti con ragazze e ragazzi più grandi di me e più disinvolti, per stare a farmi compagnia e chiacchierare davanti all'ingresso della casetta in cui alloggiavo, mentre sia la zia che la nonna - custodi, evidentemente, della mia virtù - ci spiavano attraverso i vetri delle finestre.
Qualche volta egli - che possedeva il fascino irresistibile del "bravo ragazzo"- tentò pure di estorcere loro il permesso di farmi uscire la sera con la sua compagnia di amici, proponendosi come cavalier servente e profondendosi in rassicurazioni, ma non ci fu mai niente da fare.
Al crepuscolo, quando la spiaggia è finalmente deserta ed il mare tiepido e liscio ( che era anche il momento in cui finalmente uscivo dalla mia tana di letture e di sogni d'amore sublimato per annusare l'aria salmastra e godermi l'orizzonte dalla battigia),  compariva per darmi dimostrazione di come gli dèi scivolino e volteggino e giochino nel loro elemento liquido - placenta della vita - senza la benché minima esitazione, con la più elegante e naturale disinvoltura.
 
Forse non era Orfeo/Nettuno, a pensarci adesso: magari era una foca antropomorfa. Buffo, forse allora ero una fanciullina innamorata di una foca. Ecco spiegata la mia successiva empatia per gli animali.

Un quattordici luglio mi fece un regalo: il testo integrale del Congresso del Partito Comunista Italiano (probabilmente quello tenutosi nel 1973). Ciclicamente mi risovviene questo aneddoto ed ogni volta mi stupisce. Nella nebulosa di memorie tanto imprecise e sbiadite non so capacitarmi del fatto d'esser stata inconsapevolmente - ragazzina appena quattordicenne - tanto evidente e leggibile per un conoscente da spiaggia con cui si cincischiava sotto l'occhio vigile delle mie tutrici, ma, soprattutto, così intimamente sicura di quale fosse la parte di appartenenza.

Belle illusioni, quelle dell'appartenenza.
Il Partito, la Famiglia, le Amicizie, le "compagne di lotta"...

Invece ora, amoretto di un tempo lontano, passato ed appena sfiorato Sandro, che chissà come sei e se ancora sei, nel mentre un amico - parimenti lontano ma reale - me l'ha citato in una nostra conversazione virtuale a proposito di alcune difficili situazioni d'esistenza  di alcuni di noi, io mi trovo costretta a parafrasare il buon Tolstoj e proclamare così che tutte le vite felici si assomigliano fra loro ma ogni vita infelice è infelice a  modo suo.
 
 

martedì 14 gennaio 2014

Tipi -16- I Melliflui/ Tipi -17- Gli Stupidi

La sedicente forza interiore che un tempo gli altri mi attribuivano e per cui, probabilmente, mi amavano, si alimentava, in fondo, esattamente in quella stima e nel bisogno che  mi manifestavano. Vale a dire: era un rimpallo, un miserabile castello di carta, un infantile miraggio mimetico.
Io detesto la piaggeria ed odio gli sterili ammiccamenti untuosi.  Così, uno alla volta, ho estirpato tutti i Melliflui, ché mi davano la nausea, ed ho visto scemare la forza dell'ego tracotante ed aumentare quella della disperazione in maniera esattamente proporzionale.
Ben mi sta: l'essere umano degno non può ignorare l'umiltà, ovvero la consapevolezza che, preso solo, circondato dai frammenti degli specchi infranti, rischia di non essere nulla. 
 
*
 
Non ho niente contro gli stupidi puri, ovvero ignari d'esserlo.
In un certo senso provo addirittura invidia per alcuni di loro. Se la stupidità si sposa anche con la semplicità d'animo, autentica, è un dono innato: protegge dal dolore metafisico generico, quasi sempre causato dall'eccesso di lucidità e qualche lampo di veggenza. Invidio chi non soffre con l'anima e consumandosi dentro per le atrocità del mondo: tutto sommato è pur questo un atto implicito di umiltà, dato che soffrirci non le potrà lenire né tantomeno eliminare.
Non si fa che ritornare alla riflessione volteriana: l'indole sempliciotta è obiettivamente la più indolore, ma nessuno, tra i drogati del pensiero, la vorrebbe per sé.
 
( Da che cosa ci deriva tanta spocchia? L'Umanesimo, in realtà, è dunque  una malattia?)
 
Provo intolleranza e grande disprezzo, piuttosto, per gli stupidi convinti d'essere sagaci ed intelligenti, in modo particolare se appartenenti anche alla sottospecie degli ironici.
Sono, spesso, affetti da iper-autostima, malamente occultata, ed hanno sempre una moltitudine di Melliflui che indirettamente la rafforza. Com'è conseguente e logico, infatti, il mediocre che si autocelebra risulta polo attrattivo irresistibile per altri mediocri, e, se scribacchia, ciò genera un'orgia di parole spente e salamelecchi totalmente dimentichi di un decoroso senso del pudore, ma, soprattutto, del senno necessario ad esercitare la critica sui contenuti.


Siccome sono una donna, non sopporto in modo particolare le donne stupide che si credono sagaci ed ammiccano a temi femministi, senza accorgersi d'essere totalmente asservite alla logica ed al linguaggio maschilisti.
Così, nel descrivere -poniamo- un personaggio di genere femminile, si ritrovano a richiamare come prima "qualità" la bellezza, profondendosi nelle oziose puntualizzazioni di rito: "ma la bellezza interiore, eh!, non quella di trippe e carne, eh!, la bellezza che sta pure nelle espressioni, nelle rughe, nell'anima..." ecc.
A quel punto, il peccato di stupidità è già consumato, ché, comunque vada, l'idea che donna e bellezza sia un assioma, è più che mai perpetuato.
Tutto come sempre, belle mie.
 
 

sabato 4 gennaio 2014

Pretesti

Ma quanto siamo tutti magnanimi.
Nella festa orgiastica che quotidianamente allestiamo in onore del nostro stesso io, noi tutti, profeti del più impudico ed osceno individualismo, che miserabilmente confondiamo con la libertà, minimizziamo l'infame peccato d'idolatria - misura della nostra autentica pochezza -, a suon d'alibi e perdono delle nostre stesse colpe.
L'altro non è che un pretesto nebuloso di necessario contatto con quanto abbiamo già deciso a priori d'escludere dal nostro mondo.

 L'altro, in fondo, non è che un diversivo, una momentanea escursione, frettolosa e breve, mentre già agogniamo a rientrare dopo il primo passo. Gli scuri, appena socchiusi a consentire l'immissione di un po' d'aria fresca nelle nostre anguste, private, un po' malsane stanze interiori.
Afrore morboso, morbo della fame d'essere.

*

Quel poveraccio l'han trovato morto, al buio ed al freddo della sua casa cui avevano tagliato i fili per insolvenza.
Solo.
Solo come un uomo.
Non è stupefacente, in quest'epoca in cui ognuno starnazza proclami sulla giustizia sociale e s'indigna e twitta stronzate pseudo-filosofiche e pseudo-umanistiche e pseudo-politiche e pseudo-e-basta, che un uomo muoia da solo, di freddo e d'angoscia, senza avere nessuno al mondo da cui ottenere aiuto, nessuno da salutare, nessuno che lo cerchi?
In fondo non  lo è: chi proclama lo fa sui propri casi, le rivoluzioni son tutte settarie e di classe, da tempo immemore il dolore dell'esistenza è segregato nelle oscure stanze sotterranee delle vicende personali ed ormai incomunicabili.
La comunicazione è una necessità, ma non ci emenda dal nostro becero ed orribile egoismo .