lunedì 16 settembre 2013

Nottetempo -6- (studi di pensieri da ri-pensare)

Decisamente sempre più spesso mi faccio pena, tanto mi scopro interiormente ridicola, arroccata disperatamente come mi tocca essere sugli ultimi miei personali ideali, ed anche sui miei stravaganti ed incorruttibili gusti che non posso né riesco condividere.
Forse non vorrei neppure se potessi, sospetto talvolta.

Non sono, neppure lontanamente, una vittima di qualcosa o qualcuno: la colpa e la  condanna stanno nella mia incapacità di trovare piacere in me e per me, ed il dolore d'esistere prevarica la gioia che pur potrei afferrare - perché potenziale in chi respira, credo di dedurre -, solo a causa della necessaria constatazione che senza scambio con  gli altri umani, che però d'altro canto recano sempre delusione od orrore, non si può vivere.

Tutto sommato, tale mio stato è al contempo trappola e rifugio.

La verità è che io non voglio essere come loro, i felici.
Innumerevoli volte mi hanno fatto intendere d'esserne maestri, di maneggiarla con grande abilità, grazie alla loro sedicente saggezza e temperanza.
La loro "felicità", invece, è sordida e bassa, e mi ripugna, perché è mendace e frivola: volgare imitazione materialistica di una conquista che dovrebbe essere esclusivo appannaggio della mente.
E' fatta di soddisfazioni miserabili, la cui osservazione mi deprime.
Spesso se ne vantano, decantando l'arte dell'accontentarsi, ma la semplicità che implicitamente pretendono di evocare non ha nulla a che spartire con le loro scelte d'ignavia.
E' soprattutto, una felicità comoda, di facciata, una coreografia issata su di un palco comunque solido, che non li faccia tremare per l'apprensione di ritrovarsi senza un tetto, senza complici di vita, senza companatico, e pure senza il pane. Dalla stabile piattaforma delle sicurezze carnali disquisiscono di Dio e dei suoi ministri, di giustizia ed ingiustizia, di Bene e di Male, di politica economica, di paesaggio e d'arte, di vizi e di virtù umane, senza riuscire ad amare davvero nessuno se non sé stessi, beandosi dell'eco della propria voce e senza poter mai vedere fino in fondo il cuore sanguinante dell'altro.

Questo è il loro mondo, un mondo che prova noia e sconcerto di fronte alla purezza, irride la coerenza, denigra la differenza.

Le moltitudini, d'altronde, si son sempre pasciute, in varie forme, di illusioni. A me basterebbe che costoro non avanzassero anche la pretesa d'essere fra i giusti, di conoscere il segreto del corretto vivere, tanto per tacitarsi la coscienza ed archiviare definitivamente i loro stessi, a loro indecifrabili, autentici impulsi.

 
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A me fa un po' schifo, ormai,  tutto l'impianto della comunicazione umana, lo ammetto. Basta che si gratti appena la superficie di qualsiasi affermazione, dichiarazione, proclama, per scoprirne il raggiro e la meschinità, oppure le implicazioni utilitaristiche, oppure le contraddizioni, oppure un sostanziale niente.
E' per questo che mi convinco molto di più di ben altri messaggi, e non seguo talk-show, e diffido dei giornalisti, dei politici, dei profeti, dei poeti, e comprendo perfettamente il mio gatto e la mia cagnetta.
 
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mercoledì 4 settembre 2013

Nottetempo -5- Delle imponderabili esigenze frustrate di comunione con l'altro.

E' chiaramente appurato che solo una straordinaria fortuita combinazione cosmica saprebbe sedare la sempre riconfermata consapevolezza che mantenere l'integrità della propria indole, aborrendo i compromessi, condanna ad un insanabile isolamento morale.
 
Sempre, la semplice condivisione della vita quotidiana con un mio simile, mi ha costretta alla constatazione che essa funziona in modo accettabile solo a patto di infliggere o subire piccoli o grandi atti d'oppressione, cui seguono reazioni contrarie ed automatiche, spesso vili, come il ricorso alla menzogna sistematica.
Io non mento.
Solitamente il più debole cerca di spegnere il sacro fuoco del più forte, compiendo così l'errore fatale.
Alla fine entrambi franano in un abisso, prima di assurdità, poi di mortificante tristezza: gli ignavi restano, i giusti fuggono.
 
"Ci penso. Non ho mai programmato d'amare, ma mi è successo, mio malgrado, come succede a molti e reiteratamente.
Il resto è stato una sequenza di effetti collaterali, pesantemente viziati da astrusi dettami dell'insinuante ed invasivo pensiero comune.
Alcuni sono considerati piacevoli, altri fondamentali alla fortificazione dell'umano consorzio.
Io ho una certa tendenza innata all'anarchia intellettuale e pacifica.
Poi, quasi sempre, a causa dei succitati vizi o per processo naturale, l'amore finisce.
Qualche volta era solo sogno, infatuazione, ricordo di leggenda e poesia, fantasia liberatrice.
Ogni cosa che scegliamo, d'altronde, non è che conseguenza di desideri, non sempre autenticamente nostri.
Può subentrare il guaio quando, aperti gli occhi, questi rimangono allucinati dalla visione di un'immensa catasta di frustrazioni ed amarezza, prima fra tutte, quella del fallimento della comunicazione.
... 
 
Perciò - ora è chiaro - si può amare soltanto un uguale, un pari nell'anima. Se non s'incontra, la scelta più onesta è la linda solitudine."