mercoledì 24 ottobre 2012

Dell'essere felici - soliloquio anche più inutile dei precedenti.

Di norma, per andare avanti, lascio fare al mio personale pilota automatico : lei sa (perchè femmina è!) come condurre le quotidiane e pesantissime incombenze della sopravvivenza.
 
Ciò mi consente di dedicarmi alla mia naturale propensione alla meraviglia ed alla crudele autocritica, ancestrale retaggio di quando ancora mi credevo immortale, e di snocciolare come un rosario eterno le oziose domande "Chi sono-cosa voglio-che devo fare-e soprattutto ne vale la pena?", oppure anche "Chi è costui/costei (dei miei simili), com'è la sua logica, cos'è che 'sente' che io non intuisco, come sopporta la sua vita, che tipo di aspettative ha nei mei confronti, è sincero od ipocrita?"
Saperlo, ormai, sta assumendo la caratteristica di una vera urgenza, per ovvi motivi generazionali, ma più mi ci concentro e meno me ne capacito.

So bene che si tratta di un'attività tossica: con ogni probabilità mina la sanità nervosa, alla lunga, un po' come questa ballata poetica e monotona che ascoltavamo a 18 anni, ma con ben altra attrezzatura interiore e progettuale rispetto ad oggi.

"Chi arriva alla fine della canzone senza porre in atto il tentativo di suicidio che la mestizia di Lolli insuffla nell'anima vince un'ombreta di Raboso!" era il nostro scherzo tragicomico.



In sintesi si tratterebbe d'essere felici, che pare sia il fine umano per eccellenza, a detta di ogni filosofo classico.
Quindi, che devo fare? Devo cercare d'essere f e l i c e, è semplicissimo.

Le persone più felici che ho conosciuto erano -combinazione- anche piuttosto ottuse, oppure volutamente superficiali e frivole.
Quelle non stupide, invece, la felicità la fingevano, un po' come il cameriere di Sartre fingeva d'essere un cameriere.
Di felici (ovverossia 'sereni' ed in pace con sé stessi) secondo i dettami dello stoico Seneca, per esempio, non ne ho conosciuti mai.

Eppure, m'accorgo, che non li amerei per niente.
M'accorgo ora che odio l'idea della felicità personale e che nulla mi pare tanto indelicato e disumano quanto il sentirsi 'bene' in un mondo ingiusto e spietato in cui con la mia ipotetica felicità continuerebbero a coesistere d'intorno lacrime, urla, bestemmie, dolori immensi, soprusi, crudeltà ed orrori d'altri uomini e finanche d'animali.

Perciò, è deciso, io la  sguaiata felicità non la voglio affatto finché esisterà anche un solo essere infelice, ma conoscere un pensiero al mio affine, già sarebbe una diminuzione d'infelicità, e mi resta il sospetto che pure questo sia indice d'egoismo..

E' per questo che detesto i corporativi, quelli che combattono furiosamente per il bene della loro categoria, della loro élite, della loro casta, del loro sindacato, del loro pollaio, della loro famiglia,  di tutto quello che soggiace ad un criterio di appartenenza interessata e meschina, pronti a dimenticare, una volta sazi, l'infelicità che continua a stritolare gli altri.

Beh, comunque, sia chiaro, io non sono mica normale, eh...

 

3 commenti:

  1. Bel post, dal sapore dostoevskiano. Però alle volte, la felicità accade ... anche se il mondo è maligno. Che ci si può fare? Viversela per quello che è, tanto passa. Ma poi che cos'è la felicità? Io mica lo so bene. Ognuno ha la sua versione. Chiamiamolo ben-essere.
    Qualche volta mi è capitato di sentirmi felice, di nulla, del semplice fatto di esistere ... erano particolari congiunture astrali che facevano sì che invece di macerarmi come al solito mi lasciassi andare. Se ci si lascia andare si producono endorfine. Non sempre, ma a volte funziona. Anche il Raboso produce endorfine.
    Anch'io ho pensato spesso all'egoismo insito nella felicità. Non c'è niente come la felicità "sociale" di qualcuno che ti possa fare sentire ancora più miserabile. La felicità se non è universale, porta ancora più sofferenza. e siccome la felicità universale è un'utopia (solo per essere educati), ecco che ...
    Ma è un discorso lunghissimo che però mi piacerebbe un giorno affrontare.
    Ti consiglio (se non l'hai già letto) La ricerca della felicità. Dall'età dell'oro ai giorni nostri, di Gerorges Minois. Ed. Dedalo.
    E' abbastanza illuminante.
    Ciao Morena

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    1. Nulla di più saggio: "Ognuno ha la sua versione".
      Quel che dici mi pare massimamente vero (e pure l'assonanza con il tuo nome c'è scappata!), ché io, ad immaginarmi la felicità, penso all'assenza totale dei desideri. Son loro che rendono la vita durissima e spesso frustrata. Poi ci rifletto, e la scopro inumana. Da ciò ne evinco che quella certa felicità del mio intendimento, per essere perfetta, presupporrebbe un essere senza bisogni, ovvero ultraumano, oppure non-esistente.

      Però è accaduta anche a me, di tanto in tanto. Mi è capitato di sentirmi 'conciliata' con il mondo, senza rimbrotti da muovergli, senza richieste da avanzare. Magari in un bosco, nel silenzio di umani, in una tracimazione di spirito verde, o dopo un calice di aromatico rosso di qualità -appunto-, forse anche alla presenza di qualche amico, che aveva l'effetto di lasciare espandere il cuore.
      L'illusione dell' amicizia mi ha spesso dato effimera felicità, prima di mortificarmi con la disillusione.
      E qualche altra volta...

      Grazie per la segnalazione: non l'ho letto.
      Un carissimo saluto anche a te.

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