giovedì 4 ottobre 2012

Crepuscolo.

Dover deglutire blocchi di parole incomunicabili da cui lieviterebbe la reale patologia di quest'anima, in un estremo atto di compassione verso chi mi porta affetto: è questo, che sostiene in fondo il respiro.

Non dissacrerò i loro sogni, che sono belli e puri, per raccontare l'enormità di questa colpevole disfunzione di dolore.

Non so trattenere il mio bene: esisto per negarmi, ogni acquisizione rivela all'istante il suo più crudele vuoto, ed io sono insuperabile nel farne il mio cilicio.

Non ho più incontrato il pettirosso ed il gabbiano morto, adagiato sull'argine con il collo piegato, mi sembrava crocifisso e mi ha trafitta.
Se non basta più un raggio di sole a farmi dimenticare per un attimo l'umana miseria, che altro potrò mai fare?

3 commenti:

  1. Risposte
    1. Sì, ma è pur vero che se persiste senza tregua rischia di ottundere.

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  2. nulla di ciò che ti conduce a casa ottunde. Altrimenti non si udirebbe dire "sei fuori".
    Posso solo convenire che il ritrovarsi sulla strada di casa può essere inconsapevole. Ma questa è un'altra questione, tutta propria dell'articolazione del linguaggio e della decriptazione di senso che promanano le cose. Su questa piattaforma specifica, ad esempio, il potere ha sempre determinato il suo privilegio, ricacciando fuori ciò che non è sovrapponibile e funzionale alla sua perpetuazione.
    Quindi, il dolore quale sentimento e deriva del patire, è già la condizione necessaria (ma non sufficiente) dell'addivenire al Luogo. Se non è patimento è mero e sciatto romanticismo e manierismo autoriferito.

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