martedì 25 settembre 2012

Questo nulla feroce

Io scrivo soltanto quando in me arde, in modo più o meno vivido o più o meno violento, una sorta di fuoco interiore, di disperata vitalità di pasoliniana memoria, di incontenibile malinconia, di decadente sentimento di solitudine, che vorrei disperdere nell'aria, con la speranza che incontri qualche altra  eco, magari anche rivelatoria. Io scrivo soltanto in un richiamo di natura.

Non è affatto una tensione personalistica ed egoistica, non si tratta di ambire a parlare di me stessa -cosa che riserbo esclusivamente a chi amo, in varie forme e sfumature, se li credo sinceramente accoglienti-  che so essere cosa pubblicamente inopportuna ed un po' ridicola; no, si tratta di sottolineare una profonda convinzione di sempre: dibattiamo, scriviamo, litighiamo, fingiamo di confrontarci quasi sempre per nulla e su un feroce nulla, perché, posto il punto alle nostre dissertazioni socio/politiche/culturali estemporanee, ritorniamo nel consueto nostro bozzolo criptico/ermetico/asfittico di isolamento inespugnabile e fatale frustrazione. Insomma: risucchiati nell'ego.

Anche quest'esperienza virtuale, però, come qualsiasi altra esperienza, insegna.
Ed infatti io ho preso coscienza di quel che non voglio fare. Non disquisirò mai e poi mai del nulla, neppure quando sembra essere 'qualcosa'.
E del nulla, di un feroce nulla, nella maggioranza dei casi si legge e si dice.
Più spesso, si nullifica su altri imput nullificanti imposti dai media.
Perché -pare- noi siamo opinionisti nati, anzi, innati. La chiacchiera è spiccatamente italiana.
Ci piace, ci piace; quanto ci piace.
Ci esalta dir la nostra, anche se non è mai davvero nostra ed è, più spesso, decotto od infuso di altre approssimative notizie il cui contenuto è meno importante della faccia di chi le comunica.
Non importa, ai più, la verità, ma la sua semplice parvenza, la sua sbiadita evocazione.

Ora, se non fossimo tutti così svuotati del bisogno di vera verità, non dedicheremmo più una sola parola, per esempio, ai e sui nostri disonorevoli rappresentati politici e pubblici dirigenti e li lasceremmo andare alla deriva, sprofondare all'inferno sbranandosi a vicenda, godendoci lo spettacolo mentre così si raccontano, divorandosi: "...Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,e questi è l'arcivescovo Ruggieri: or ti dirò perché i son tal vicino..." (Dante Alighieri, Commedia,Inferno, canto XXIII).

Troveremmo disgustoso, nullificante e ferocemente noioso fin l'appioppar loro epiteti e manifestare indignazione, perché gli uni e l'altra, comunque, per loro sono fin troppo e la misura è oltremodo ormai colma d'indecenza.

Invece no. Ci ricadiamo sempre: ne parliamo animatamente al bar, ne scriviamo; poi, tra di noi, polemizziamo pure in retoriche esibizioni di ridicola arguzia. Se siamo giornalisti professionisti lo facciamo su testate autorevoli regolarmente e lautamente finanziate, se umili Nessuno in migliaia di blog, se tuttologi sfigati in queste ed in quelli. Assistiamo ai loro scontri televisivi con un'istintiva attitudine alla tifoseria, assemblando giudizi politici ed estetici, umanistici e triviali, di testa e di pancia.
Nel frattempo, loro, questi ormai dichiaratamente accertati nocivi - e non da ora- , percepiscono da noi lo stesso stratosferico stipendio ed accumulano beni e vergogna, placidi e niente affatto allarmati, mentre noi ci dibattiamo nei sostanziali grandi mali italici: il fatalismo, la genialità senza l'etica, la parola senza il costrutto, l'ignavia.
Il paese civile è quello in cui il cittadino non attende supinamente che il politico corrotto ed incapace si dimetta, ma quello in cui gli dice, senza possibilità di replica, "Ti licenzio".

Non è il nostro: noi qui si ha, a reggere la cosa pubblica, il Nulla, il Nulla Feroce.












lunedì 17 settembre 2012

Rosa del deserto.

Non è che il dolore metafisico, in sé e per sé, costituisca un merito epperciò sia sbandierabile -oppure anche confidato con pudico sussurro- con orgoglio, né, men che meno, ritengo che qualcuno dal cervello normodotato possa insistere con l'agostinismo secondo il quale  esso è utile per arrivare al bene.

Il dolore accade, e forse il male esiste in sé e per sé.
Accade ai buoni, accade ai cattivi, agli empi, ai giusti, ai poveri, ai ricchi.
Il dolore è egualitario, come la morte: prende tutti.

Succede il più delle volte perché siamo complessi o perché è la nostra vita  a farsi necessariamente complessa e per buona parte al di fuori del nostro volontario controllo.
Per il resto, invece, ce lo arrechiamo o lo arrechiamo ad altri secondo un determinato e preciso atto arbitrario, o per deficienza di congrua riflessione, o per somma ignoranza, o per pura fatale stupidità, od a causa di una sensibilità troppo raffinata.
Personalmente, se soltanto potessi, ne farei tranquillamente a meno e non mi sentirei per ciò depauperata di neppure un grammo della mia umanità, ma se costituisce sforzo titanico avversare la fatalità lo è anche di più contrastare la propria stessa indole.
Comunque  e per qualsivoglia ragione sia, la sostanza non cambia: il dolore accade agli umani, ed accade spesso; anzi, accade quasi sempre e reiteratamente.
Da ciò deriva che farsene scudo od utilizzarlo come alibi all'ignavia od all'indifferenza verso i propri simili ed ai doveri primari vicendevoli che c'impone l'appartenenza alla specie, sia non soltanto amorale, ma anche sordido e squallido, tanto da abbassare dalla scala evolutiva.

Allora che farne? Come gestirlo, dove porlo, come sopportarlo?
Lo rimiro notte e giorno, osservandolo con minuzia dalle diverse prospettive.
E' la mia rosa del deserto: ruvido ed ambrato, ostile al tatto, lamine taglienti.
Ha una sua bellezza selvatica e seducente, le lacrime lo sciolgono, destrutturandolo per un po', fino alla sua puntuale successiva ricomposizione: il più fedele dei compagni di una vita. 

'Il dolore rompe il guscio che sprigiona la conoscenza': così recita pressapoco Kahlil Gibran.
Nulla mi pare più vero né tanto più tragicamente bello.
Il più autentico modo per amare un proprio simile fino in fondo è riconoscerne ed indovinarne il dolore racchiuso nelle più intime fibre e sentirlo proprio.
Dopodiché -e solo allora, può crearsi il tortuoso passaggio  di uno spiraglio di luce che consenta la condivisione di una piccola ed effimera felicità.
 
*

Quella donna, sicura e stravagante nei suoi tonici 64 anni portati con allegria, bella di quella speciale bellezza che se fossi uomo riconoscerei ed amerei all'istante perché fuori canone e disinvolta, sottratta ai ridicoli cliché, con l'anima vitale che adombra la consueta invasività del corpo, tra le righe mi ha detto: "Mentre accudivo mia figlia quarantenne che moriva di tumore, mio figlio si ricoverava a San Patrignano per liberarsi dalla dipendenza..."

"... ed io, ..., io mio figlio mi arrangio a sognarlo, e ad immaginare quel che fa e che vive, e come piange e ride, e a chiedermi se saprò ancora, se mai quel giorno verrà, far uscire le parole di madre, ché ormai hanno sbiadito musica e senso e mute evocazioni..." le ho risposto.

Non sto meglio, poi, ma almeno ti ho vista, e tu hai visto me.
E per un attimo, che durerà dentro noi per sempre, noi siamo stati due simili, reciprocamente edotti della più pregnante sostanza dell'altro.
A me è questo che preme, sempre e con chiunque.
E' questo che mi serve, che mi manca: la dialettica emotiva.
Non più trasparenti, non più irrilevanti, non più inutili né soli.


*



 

domenica 9 settembre 2012

Volevo sapere

Vita: "... perché, scusa, è tanto difficile digerire la semplice e placida verità che tu sei perfettamente irrilevante, invisibile, inutile? Ti avevo forse promesso io qualcosa? Ho forse mancato ad un impegno precedente preso? C'era -per caso- un patto, tra di noi, di cui io, peraltro, non saprei assolutamente nulla?  Ti ho assicurato una certa dose di felicità? In quale clausola del contratto, dimmi: tra quelle scritte in invisibile?
No, mia cara, hai fatto tutto da sola. Io non c'entro.
... e, tra gli umani tuoi simili, di cui hai tanta compassione e che pensavi -addirittura!- di saper amare a causa di qualche loro poesiola, di qualche lagna  esistenzialista, di qualche immagine su tela, di una sinfonia, o qualche sparuto eroismo, pensi forse d'essere meno vana?"
 
Sirio: "... e tu pensi che io non  lo sappia da sempre? E, giacché siamo in vena di confidenze, dimmi: te l'ho forse chiesto io di subirti? Ti ho forse mai detto, quando me ne stavo dormiente nell' Eternità, 'scaraventami nel mondo, buttami giù in quel fosso gorgogliante dove tutti quei cosini si agitano e tremano e ballano come dei tarantolati e poi celebrano i loro sepolcri, trovandolo pure bastevole e sensato?'   No, io non te l'ho chiesto affatto: ho subito una violenza cosmica e sto qua. Questo è quanto."
 
Vita: "Bene, allora. Pazienta e rilassati: non dura poi molto."
 
Sirio: "Il Pensiero. Ho il pensiero. Non sai spiegarmi a che mai possa servire. E' una domanda che ti ho posto mille volte. Non m'importa della mia irrilevanza, non m'importa d'essere mortale, non m'importa se l'amore è un'idea insostenibile e non esiste.
Volevo sapere 'perché' il Pensiero. E tu non lo sai.
Sei barbarica.
Sei fallita.
Sei fallita un milione di volte più di quanto non lo sia io."
 

lunedì 3 settembre 2012

Più di una localizzata affezione fisica, è l'eterna nostalgia a dare acuto dolore.
 
C'era un sistema di vita che pareva possibile, seppure dopo strenua lotta ed eroica resistenza, ed invece non è stato mai, neppure in un approssimativo abbozzo.
 
Un grande sogno globale -che era intimo e personale e purtuttavia politico, nonché l'esatto opposto-, permea ancora le sotterranee cellule e forma una sorta di singolare ipoderma.
Rimane quindi una pelle nostalgica, a rivestire un corpo ed un'anima  fatalmente malinconici. Incredibilmente, è uno stato che mantiene una certa integrità di distaccata bellezza. Sì, è il solo modo che conosca per salvare la bellezza.
 
E' un vero guaio rapportarsi in questo modo alla realtà dei fatti ed alla verità delle persone.
Il mondo non è mai calibrato sulle nostre aspettative, le nostre aspettative non sono mai totalmente legittime e lecite ed aggreganti, l'aggregazione  in un insieme di troppe monadi frustrate e disperate rese vulnerabilissime dalla percezione della loro stessa solitudine comporta sempre perdita della primordiale purezza. Nella vita di relazione, a qualsiasi livello la si consideri e nelle sue diverse accezioni, l'uomo tradisce fatalmente sé stesso e si corrompe: impossibile non piangere la sua sostanziale sopravvenuta ed irrimediabile miseria.

Quando ti parlo e  ti ascolto, le rare volte ormai che ti ripresenti al mio cospetto in quelle tue frettolose e formali comparse, io ho pietà e nostalgia di quel 'noi' che non è mai stato. Mi chiedo se sia più grande la tua responsabilità nell'essere stata così irresponsabile nel fingerti mia affine (tu che sapevi quanto sia concreto per me lo spendersi in un'amicizia), o la mia nel vietarmi di considerare con lucidità tutte le odiose contraddizioni che lo rendevano impossibile e che io ho voluto ignorare.
In ogni caso, non assolvo nessuna di noi due per la lunga e dolorosa agonia di quest'amicizia bugiarda.
Ne trattengo la malinconia del sogno deluso, la bellezza solo immaginaria: è di questo, anche, che si nutrono e  l'anima e l'intelligenza.

... così come quando, tristemente, fortunatamente di rado, succede di risentire chi con me, al tempo della giovinezza, aveva vissuto le stesse speranze e lo stesso progetto politico ed ora racconta della sua casetta con giardino, del suo ordinato matrimonio con eredi e delle ordinarie ambizioni di benessere privato, io altro non posso opporre che la solita nostalgia guaritrice e pietosa, che sa restituirmi con fedele esattezza la verità inoppugnabile degli intenti e delle intuizioni di allora, quando esisteva ancora un'ambizione legittima di purezza ...


Io non lo so più se quando si parla sono le rispettive nostalgie delle personali immaginazioni a tentare un dialogo; io non sono più certa che noi si parli tra noi e di noi, e non già del nostro intimo ed ancestrale sognare.