martedì 31 gennaio 2012

Amori da morire -6-

Lei era integralista, profondissimamente e suo malgrado, nel pozzo suo segreto dei desideri, nell' abissale tana della  sua anima.
Lo era negli effetti personali ed esclusivamente per quel che la riguardava ed atteneva.
Edi suoi più personali effetti erano il pensiero, i giudizi, i suoi insindacabili -un po' eccentrici- gusti ed i sentimenti.
sentimenti: quel che il dizionario definisce come un fenomeno dell' affettività valevole  un po' di più dell' emozione ed un po' meno della passione.
Lei ne aveva di forti e complessi, a cominciare dal suo senso dell' umanità e dalla sua pietà e nonostante tante riflessioni ed una forte attitudine razionalizzatrice, si ritrovava poi, puntualmente, a poter scorgere il mondo ed il cuore degli uomini solo attraverso di essi. Senz' ombra di dubbio, era come se lei sapesse da sempre -ma dove provenisse questo sapere lo ignorava- che il sentimento è sempre un po' più acuto della più acuta delle intelligenze.
Era questo di cui allora era assolutamente convinta.
*
Più tardi, quasi senza avvedersene, come un naufrago che ha resistito alla violenza di mille onde ed alla milleunesima, stremato, affoga, fece in modo di sembrare a sé stessa ed agli altri nichilista.
*
Chiunque, fuori, nel mondo, oltre la barriera del suo corpo, poteva essere e fare quel che più gli aggradava senza che lei si sentisse minimamente autorizzata ad esprimersi in merito, tentando, ad esempio, di rendere allettanti sue opinioni o decisioni, fargliele abbracciare, forzare una condivisione non immediata, viscerale, spontanea.
Amava più ciò che da lei differiva  in sfumature arricchenti piuttosto che  ciò che tende alla similitudine totale.
Tuttavia rimane assolutamente fuori discussione che i contrari si respingono, e decisamente, e perfino senza bisogno di ragionarci, ma bensì d' istinto e talvolta violentemente.
Infinite volte se l' era detto ed infinite volte l' aveva dimenticato.
La smemoratezza aveva una causa ben precisa: fame di affinità, ansia di vita, disperato bisogno di uscire da un tunnel di solitudine insostenibile.
Ecco perché aveva sciupato tanto tempo e tante energie con uomini mediocri, spesso a lei inferiori intellettualmente e spiritualmente, ma ricchi di metodo e furbizia: quella sua ansia la rendeva tremendamente vulnerabile e fragile, anche se lei lo sapeva bene, in fondo, e per questo si odiava.

Non sarebbe cambiato mai nulla, fino alla fine del tempo. Sapeva, sapeva bene anche questo. Cionostante doveva amare per forza, oppure, in alternativa, morire.

Così riamò, per niente, quell' uomo già amato e poi disprezzato: ne riamò un' idea d' amore che doveva assolutamente discendere in un corpo, e pure senza indugi, una prospettiva sognata che voleva con tutte le sue forze che fosse vera per arrivare, ovviamente, necessariamente, a disprezzarlo ancora e a lasciarlo, di nuovo, per i suoi persistenti vergognosi tentennamenti, i sensi di colpa di diciott' anni prima ma a causa di un nuovo oggetto, questa volta certificato, la sua altalena di lacrime e disperate fantasie amorose via sms strazianti ed inconcludenti.

Che avrebbe fatto se il veicolo dei suoi contrastanti e pavidi desideri  fosse stata una colomba viaggiatrice? L' avrebbe sfinita di messaggi che non erano un mezzo, ma tutto il solo fine.
Gli uomini da niente hanno sempre sacrificato mille colombe.

The wounded angel (Hugo Simberg)


Quando finì, lei ritrovò il solo uomo che la conosceva intimamente, che amava e vedeva con chiarezza la sua anima, senza temere che la sua stessa impallidisse e svanisse. Suo marito, con quella sua immensa forza, con la sicurezza derivatagli  dalla potenza dei suoi stessi sentimenti, aspettava che il doloroso e necessario percorso di lei gliela restituisse.
Neppure per un attimo cercò mai di strapparle le ali: l' aveva guardata allontanarsi sulla scia di una corrente di sogno, posarsi in ascolto sulla scogliera selvaggia, tra i marosi infuriati, contemplare infine il liquido specchio liscio, e ritrovarsi.

" [..] Eretto nella sua armatura un uomo di pietra, al timone, solcava il nero flutto. Ma l'eroe, calmo, chino sulla sua spada contemplava la scia, sdegnoso d'altro vedere. [...]"
( C. Baudelaire, Don Giovanni all' inferno)

E lei credette di riconoscere, finalmente, l' approdo. Ed invece era soltanto un alito di bonaccia.
Tra loro non c' erano le parole, non c' erano mai state: nessuno di loro avrebbe potuto coniarne di efficaci per accedere al cuore dell' altro. Era un amore di motti e di segni, uno scambio di brividi e di fluidi, perfetto, nel sentire di lui, muto, pragmatico, maschile, in quello di lei.

Prima di scoprire di non avere scampo e rassegnarsi alla pochezza dell' altrui concetto d' amore, imparando a zittire la sua disperata attitudine alla speranza, in quell' ossimoro che rappresentava interamente il suo essere, lei osò ancora, come se possedesse la sacra follia dei profeti e dei visionari che il mondo ha sempre, implacabilmente, mandato a morte, per sedare la sua paura.

(continua, forse)




domenica 29 gennaio 2012

Acqua alla gola

Ci siamo autoproclamati esseri di inestimabile valore.

Ciascuno di noi ha un' enorme considerazione di sé stesso, e questo sia nel caso in cui si conviva con un' esagerata autostima, sia in quello, opposto, in cui ci si detesti o ci si disprezzi.
Tanto basta per ritenersi sempre in credito di qualche supposto diritto e sempre più o meno tiranneggiati da qualcosa di vessatorio, o qualcuno di infinitamente crudele, oppure, nell' opposto frangente, a ritenersi responsabili dell' efferata colpa di non riuscire ad essere felici.
Dio, dèi, fortuna, sorte, natura, uomini: purché fuori di noi, hanno così interamente tutta la responsabilità del dolore del vivere o, più raramente, il merito delle effimere gioie.
Ma basta l' unicità per considerarsi, oggettivamente, preziosi?

Il valore richiede un parametro, senza il quale non è misurabile, e parametri certi ed oggettivi in assoluto non esistono: ciascuno di noi si crea i propri o ne adotta qualcuno di già creato da altri.

"Finora gli uomini si sono sempre fatti idee false intorno a  sé stessi, intorno a ciò che essi sono o devono essere. In base alle loro idee di Dio, dell' uomo normale, ecc. essi hanno regolato i loro rapporti. I parti della loro testa sono diventati più forti di loro. Essi, i creatori, si sono inchinati di fronte alle loro creature. Liberiamoli dalle chimere, dalle idee, dai dogmi, dagli esseri prodotti dall' immaginazione, sotto al cui giogo essi languiscono. Ribelliamoci contro questa dominazione dei pensieri. Insegniamo loro a sostituire queste immaginazioni con pensieri che corrispondano all' essenza dell' uomo, dice uno; a comportarsi criticamente verso di esse, dice un altro; a togliersele dalla testa, dice un terzo, e la realtà ora esistente andrà in pezzi. Queste fantasie innocenti e puerili formano il nucleo della  moderna filosofia giovane-hegeliana [...] Il primo volume di questa pubblicazione ha lo scopo di smascherare queste pecore che si credono lupi e che tali vengono considerate, di mostrare come esse altro non fanno che tener dietro, con i loro belati filosofici, alle idee dei borghesi tedeschi, come le bravate di questi filosofi esegeti rispecchino semplicemente la meschinità delle reali condizioni tedesche. [...] Una volta un valentuomo si immaginò che gli uomini annegassero nell' acqua soltanto perché ossessionati dal 'pensiero della gravità'. Se si fossero tolti di mente questa idea, dimostrando per esempio che era un' idea superstiziosa, un' idea religiosa, si sarebbero liberati dal pericolo di annegare. Per tutta la vita costui combatté l' illusione della gravità, delle cui dannose conseguenze ogni statistica gli offriva nuove e abbondanti prove. Questo valentuomo era il tipo del nuovo filosofo rivoluzionario tedesco."

(K. Marx, Introduzione a  L'ideologia tedesca, 1846)


Preziosa unicità, dicevo.
Ed è un concetto contemporaneamente aereo e terrestre. Unico, filosoficamente, o religiosamente (per chi vuole) -ché tanto è lo stesso- per la sua attitudine all' immaginazione ed all' astrazione; terrestre perché, anche empiricamente, differente da ciascuno dei propri simili. Ogni uomo è, quindi, certamente unico.
Ma in base a quale parametro misurarne la preziosità ed il valore? Non c' è, di nuovo, bisogno di un altro dio, di un nuovo metro, di una bilancia, dell' ennesima illusione di riferimento?


Stanotte io non so rispondere.
So soltanto d' avere di nuovo l' acqua alla gola.



 (A Kisciotte: m' accorgo che è di nuovo domenica. Il post è tratto, ma lo giuro, non era premeditato il suo morale. Il tuo di ieri m' ha commossa e te ne ringrazio qui, dove c' è meno folla...)

martedì 24 gennaio 2012

Il genere: forca caudina

I maestri, buoni o cattivi che si rivelino poi essere, hanno comunque un' enorme influenza sui loro discepoli, siano essi consenzienti oppure no.

Ricordo il mio professore di letteratura moderna.
Era un tipo dalle malcelate ambizioni narrative frustrate, abbastanza competente, leggermente snob, sportivo e giovanile, ed affetto dal difettuccio d' essere spudoratamente attratto dalle sue giovanissime  alunne, non tanto intellettualmente o paternalisticamente o per filantropia, quanto piuttosto nella loro qualità di fanciulle in fiore.
Mi ha fatto arrossire un milione di volte, in classe, a seguito di sue battutine allusive talvolta decisamente pesanti. I suoi  "Martini, venga sulla cattedra", accompagnato da sguardo complice e divertito indirizzato ai suoi allievi cogeneri, o "la morfologia della Martini, ad esempio..." in risposta a chi gli chiese cosa significasse 'morfologia', per non parlare del più triviale di tutti, consistente nell' offerta di un passaggio sulla sua canna -della bicicletta, ma con risatina-, per citarne alcuni, mi imbarazzavano e mi inducevano a provare un filo di vergogna, pur se totalmente ingiustificato. E' chiaro che se esempi similari provengono da un autorevole educatore, i suoi discepoli ne deriveranno che sia buona cosa seguirli
.
Aggiunto questo dettaglio, fornito da una figura che avrebbe dovuto essere carismatica -anzi, che nonostante questa pecca, questa debolezza un po' deformante, continuava ad esserlo (in fin dei conti lo ringrazio ancora per avermi trasmesso l' amore per gli autori del Neorealismo  ed imposto la ripetizione a memoria di molti articoli della Costituzione Italiana) - alle vicissitudini ordinarie che coinvolgono una giovanissima femmina di umano che inizia a relazionarsi con il mondo e che s' accorge presto che ogni esame cui dovrà essere sottoposta per impostare le sue scelte di vita non prescinderà mai, nemmeno una sola volta, da un iniziale giudizio -più o meno consapevole e subliminale- sul suo aspetto e sul suo corpo, una ragazza può maturare diverse ed opposte consapevolezze, reazioni e strategie.
Nel mio caso, fondai un cazzutissimo " Collettivo Femminista" nel mio Istituto scolastico, tanto per ragionarci su.

Oggi so che non c' è niente da fare.
Non se ne esce, a nessun livello, per quanto si possa convenire teoricamente, anche tra uomini e donne più sensibilizzati ed 'evoluti', sull' eccentricità di simile forca caudina obbligatoria per chi ha avuto la ventura d' essere nata femmina.

Odio questa cosa.
Odio tutte le persone  convinte d' esserne consapevoli, ma puntualmente, negli atti e nelle parole, in imperdonabile contraddizione.
Alcuni li sentivo amici, cioè, prima di ogni altra considerazione, affini. Ma ci cascano, altroché se ci cascano.
Che tristezza, e che noia.

Se ne può dedurre che il corpo fagocita sempre pensiero e quel che convenzionalmente definiamo anima? Io temo di sì, nei rapporti infra-generi o che oggettivamente implicano, anche in ambito professionale o comunque pubblico, la contrapposizione dei due generi. Ergo: comandati dai nostri stessi ormoni perdiamo lucidità , raziocinio, e senso critico, nonché, talvolta, sciupiamo la poesia.


*

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Cosí li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.


( C. Pavese -22 marzo '50)


... e pensare che lei era  veramente una mediocre...

*

Urge un mio ritiro subitaneo alla rocca, va'.

sabato 21 gennaio 2012

Amori da morire -5-

Non solo "siamo fatti della stessa materia dei sogni", ma anche i soli momenti in cui lei viveva totalmente erano precisamente i sogni ed i ricordi di sogni.
Non conosceva un luogo meno surreale di quello, un approdo più sensato per una solitudine interiore tanto irreparabile e, comunque fosse, fatale.
Aveva affinato una straordinaria capacità di esistere in due dimensioni parallele: quella ufficiale e formale, che era una sorta di morte in vita e totale alienazione, e quella sotterranea in cui ritrovare un mondo a sua misura.
A ciascuno la sua tana: chi la trova nella folla od in illusori consorzi umani e chi sotto la propria scorza, invisibile al mondo.
Trattenere nella sua vita gli esseri umani che via via incrociavano la sua strada aveva pressuposto, fino ad allora, accontentarsi di relazioni avare di parole e simboli e per loro stessa natura decadenti, instillarci un' energia parossistica ma inutile, mai colta completamente dall' altro e sempre poi stravolta nel più profondo dei significati.
A lei l' aristotelica medietà non confaceva affatto e sotto sotto la trovava un po' vile e meschina.
E l' impressione che reiteratamente aveva ricavato dalle sue conoscenze era che la generalità delle persone preferisse le piccole certezze nel rispetto di formalità e convenzioni all' espressione più onesta di sé.

"Accontentarsi" suonava come una bestemmia. A quale fine? Perché avrebbe dovuto accontentarsi?
Il poco, nella sua voragine di esigenze sentimentali ed umanistiche frustrate, valeva meno del vergine nulla.
Dal puro 'niente' avrebbe potuto, almeno teoricamente, far sorgere qualcosa di sano fin nelle radici, ma dal malato cronico terminale 'poco' eventuali frutti sarebbero nati già avvizziti e guasti.
Non aveva ancora considerato la spiegazione più banale del fenomeno: semplice carenza di spessore e livello genericamente umano nei suoi contatti, pura piccineria morale, deficenza speculativa, intellettiva, spirituale.

Tanto valeva risparmiar forze, cautelarsi un po' di più, provare a scriverne, fosse soltanto per sé e, soprattutto, immaginare, nella dimensione parallela.



Le era chiaro che la più crudele delle condanne umane è il desiderio, ma che il desiderio stesso è anche ineludibile connotazione umana: non è possibile disfarsene mai completamente.
Allora non resta che desiderare il relativo bene, quantomeno in rispetto della propria più autentica natura.
Saper che cosa desiderare, ma autonomamente, è un' arte raffinata e costituisce atto di libertà.
E lei desiderava il solito altrove (luogo del completamento, della gioia senza recriminazioni e rimpianti, dell' equilibrio e della riconciliazione con sé stessa e conseguentemente con gli altri) -di questo era certissima-, ma senza averne alcuna precisa cognizione, senza poterne disegnare tratti, contorni e personaggi. Per sua natura, quell' altrove non poteva che essere astratto, ma è esattamente quella caratteristica che lo rendeva salvifico. La speranza deve riguardare ciò che non c' è e forse non sarà mai: quel che si può  prima o poi afferrare, una volta ottenuto, sarà avvilito dalla noia.
Così siam fatti.

La battaglia contro le fatalità è sempre persa dagli uomini: ritenere di governare la propria vita è pura velleità. Velleità pietosa.
Così lei, di nuovo, si ritrovava a vivere situazioni dominate dalla solita miscela d' assurdo e di costrittivo unito ad una parte di arbitrio e volontà: suo malgrado -così- invischiata esattamente nella vita mediata che tanto detestava.
Un figlio, che porta ad assunzione di responsabilità ben precise ed assolutamente dovute, la necessità di un nucleo familiare anche per far fronte alle vili esigenze materiali, la consapevolezza che nessuno al mondo, mai, avrebbe potuto vedere la sua disperata sete d' immenso e la sua uranica malinconia.

Poteva ritenersi colpevole d' essere così accanitamente sposata al dolore d' essere e non poter mai essere fino in fondo?
Chi maledire per la fatalità d' avere un talento così affinato per sentire in sé tutto il dolore, e lo schifo, e la follia d' essere umani?
"Solo, solo fino all' osso": come hai saputo dirlo bene.

Che ci vuole, allora, in un' indole simile, per sperare che.?
Niente. Non ci vuole nulla. L' alternativa, altrimenti, è l' auto-soppressione.
Così, se le prospetti un nuovo amore, aspirazione di Bellezza, lei vorrà ostinatamente, fortissimamente, impetuosamente, crederci, perfino nonostante la certezza che non funzionerà e distruggerà quei pochi punti solidi d' ancoraggio della sua precaria ed oscillante vita.
Questo la diversificava da tutti coloro che conosceva. Da tutti, anche da chi diceva di amarla, di volerla per sé, in una comune nuova vita. Nuova vita: identica nei meccanismi alla vita già vissuta.

Non era la via d' uscita verso una luce, ché l' esistenza è un labirinto infido destinato a proiettare in un buco nero d' energia, ma volle fingere -sognò, sognò, sognò- che lo fosse.

Lo baciò, lo consolò delle sue vili e misere paure, e stette a contemplare gli sviluppi di quella coscienza che lei conosceva fin troppo bene,  mestamente certa di conoscere a perfezione l' inevitabile epilogo della storia sempiterna, purtroppo.
Ma c' era, nell' aria che respirava nel frattempo, in quella sorta di tregua ideale fatta di arabeschi di fantasia,  il motivo di immaginarsi ancora un suo mondo di possibilità, ambrosia d' Eros, che sa rendere -pur se a termine-  semidèi i mortali.

"Mi manchi, mi manchi, mi manchi. Sono migliorato, sai, però: al mattino ho maggiore autonomia, ora. Non sei il primo pensiero, quando apro gli occhi. Riesco a resistere fino all' armadio, che sta ad un paio di metri dal letto. Poi compari tu e rimani nella testa. " le scriveva clandestinamente la notte mentre sua moglie dormiva. "Ricordi a Sappada?  Sono uscito dall' albergo, disperato, perché non riuscivo ad amarti (sei una strega, perché con te è così?) ed ho raggiunto il prato. Mi sono sdraiato sull' erba, l' aria era frizzante, c' era il sole, ho chiuso gli occhi, la pressione  al cuore s' è alleggerita. Quindi, un immenso vuoto. La cosa più bella l' avevo lasciata nella stanza della locanda. Sono tornato correndo da te, ed ho vinto il mostro."

"E meno male", pensava lei con risentimento, "che non mi hai condannata al rogo, com' è successo alla povera ragazza di cui Mann narra nel Doctor Faustus...".

Soggiungeva la tristezza.
Sapeva che non si cambia.
Sapeva che non si può.
Ed il buco nero li avrebbe di nuovo inghiottiti.
Meritatamente.

(continua, forse)



martedì 17 gennaio 2012

Gente orrenda

“OPERAIO METALMECCANICO SENZA LAVORO, ITALIANO IN OTTIMA SALUTE (A PARTE UN PO' DI ABBATTIMENTO MORALE) OFFRE UN RENE A CHI MI DA UN LAVORO.
PRIMO CONTATTO VIA E-MAIL”.
Questo è, riportato letteralmente, un annuncio inserito in uno dei tanti portali di ricerca ed offerta di lavoro. In questo caso, me ne ha informato una persona che li frequenta -naturalmente per necessità- , aggiungendo che proveniva  dalla provincia di Padova.

Non so se quel messaggio sia provocatoriamente sarcastico od  autentico, ma se lo fosse, al punto in cui siamo, non mi fa neppure più inorridire.
L' indignazione, l' attitudine a percepire quanto sia nefando uno scandalo, tra 'gli ultimi' è già superata.
Così come esistono piccoli imprenditori che si impiccano a causa del fallimento imminente ed inesorabile della loro azienda, ci sta pure che qualcuno si venda un rene, com’ era (e non so se ancora sia) pratica comune in tante altre realtà che pensavamo da noi lontane anni luce, anche se geograficamente non così distanti. Ricordo un servizio giornalistico televisivo in cui un sovietico raccontava di averlo fatto per sfamare la sua famiglia. Sto pensando seriamente su quale organo  sufficientemente allettante per il mercato potrei contare io se la mia minuscola attività artigiana neonata e per ora improduttiva di reddito dovesse fallire.
Siamo ad una svolta decisiva dell’ umanità, - io non ho dubbi-, creata da un sistema che sta ingoiando sé stesso.
Ma la vera, straziante, agghiacciante tragedia sta nelle reazioni, nella nuova incapacità a versare lacrime, in questo fenomeno di indurimento ed ispessimento di corazza.
Perché, oggettivamente, di questo tizio non gliene fregherebbe assolutamente niente a nessuno.
E’ diventato normale che sia così.  Il potere ha le sue inossidabili e gelide regole ed i suoi moderni altari sacrificali.
Prima che suoi schiavi -a prescindere dal ruolo più o meno gregario che rivestiamo nel suo teatro-,  ci ha abilmente resi individualisti, insensibili, ferini,  spregevoli ed indifferenti.
Una forma spuria di ributtante anarchia di comodo e  di anestetizzazione.
Non c’ è nulla che ci scuota se non ci attiene direttamente, nulla.  NULLA.
Questo, è questo, l' orrore massimo.

Per ciascuno di noi è esemplare e significativa soltanto la specifica e personale realtà.
La gente scavalca indifferente il cadavere dell’ ammazzato di camorra sul marciapiede della città, si schifa se il barbone si ripara dal freddo nelle gallerie degli acquisti metropolitani perché lo trova esteticamente deturpante ed osceno.
All' ex coniuge, che ti "amava da morire" - in particolar modo nel talamo, 'sto stronzo-,  non importa niente se la sua stessa stizzita ed arbitraria   interruzione del magro assegno di mantenimento che ti permetteva di sopravvivere a malapena, in forza della sua induzione -completamente e clamorosamente sbagliata- su tuoi redditi invece inesistenti, ti inabissa nella povertà, forse ti ucciderà: lui vuole riprendersi la sua vita annullandone semplicemente i precedenti, sia nella memoria, sia nei fatti pratici.
Come pure agli 'amici', quello stuolo di parolai inconsistenti ed incoerenti, cui magari tu -imbecille-, hai tributato autentica dolcezza e sincerità. E ti sta bene, agnello ingenuo tra i lupi che altro non sei.

La filantropia è stata clamorosamente sconfessata dalla Storia, dalla Vita, dalle Religioni, dalla Politica.
 
L' Uomo è uno schifo, od è cialtrone.
Rimane a consolare, ma sempre più flebilmente, un' ombra, una reminescenza filosofica, poetica, obsoleta, ridicola.
Come me.

domenica 15 gennaio 2012

Tregua onirica

"Perché ogni piacere e dolore, come avesse un chiodo, conficca l' anima nel corpo e la fa corporale in modo che ella crede vero tutto ciò che il corpo dice essere vero. Imperocché ella, dicendosela col corpo e pigliando insieme con lui diletto nelle cose medesime, mi penso che è necessitata di pigliare anche il medesimo abito e costume; onde mai non arriva pura nell' Ade; perocché, uscendo dal corpo suo tutta piena di corporale desiderio, tosto ella cade novamente in un altro corpo, e, come fosse sementa, ivi germoglia, rimanendo accecata della vista di ciò che è divino, puro, schietto."
(Platone- Fedone)

In una domenica pomeriggio come questa, in cui la noia esistenziale mi strazia con particolare recrudescenza, mi è fin troppo facile confutare Platone ed accusarlo -non senza una punta di masochismo intellettuale- di bigottismo filosofico e sempliciotteria.

Ma quale vista di "divino, puro, schietto"?
Quale Olimpo delle Idee?
Le ho dimenticate tutte, oppure l' anima -custode dell' ancestrale memoria-  s'  è contratta, s'è rifugiata in qualche anfratto di me oscuro ed introvabile, ormai inaccessibile, dimentica financo di sé stessa, asfissiata da un disgusto generico ed immenso, intollerabile.
Questo corpo è talmente stanco dell' immersione coatta in questo mondo un po' lercio, le catene gli arrecano così inguaribili ferite, i limiti di tempo/spazio sono sì ristretti, i mezzi d' agire talmente miseri e vani, le occasioni così rarefatte e deludenti, i suoi simili tanto contratti bloccati avari indifferenti troppo spesso meschini e bugiardi, cialtroni, vili,   le sue stesse parole così inadeguate e rozze, dall' anelare ad un sonno prolungato, ad una vita parallela di sogni, od a farsi lieve accordo, in una sinfonia di sfere celesti.

E, nel sogno, ove -soltanto- godo di tregua, mi faccio Fedro, nel bosco fuori le mura di Atene, al termine dell' amabile conversazione con il Maestro, ed immagino come ci si potrebbe sentire, al calar della sera, dopo tanto privilegiato apprendimento.
Riconciliarsi con sè stessi e con il mondo: non è, forse, tutto ciò che in sintesi a me serve?

E se ad Iddii io potessi rivolgermi, è questo il mantra che ripeterei ad ogni congedo:

"SOCRATE: O caro Pane, e voi tutti che di questo luogo siete Iddii, concedetemi che sia bello io di dentro, e che tutto quello che ho di fuori si concordi con quel di dentro; e ch' io reputi ricco il savio; e ch' io abbia tant' oro, quanto ne può solo portar seco colui che è temperato. -Oh, che c'è bisogno d' altro? dì, Fedro. Quel che ho pregato io, mi basta.
FEDRO: Così prega tu anche per me, che le cose degli amici sono comuni."
(Platone, Dialoghi, Fedro)


venerdì 13 gennaio 2012

Elementare intuito visivo

Se n' è accorto anche Mauro, il barista, stamattina.
Eppure lui appartiene alla categoria degli indifferenti e ci conosciamo appena: quel poco consentito dalla funzione della amigdala, nel suo nocciolo di mandorla che fruttifica emozioni poco complesse, durante il periodo di tempo che intercorre tra il servire un caffé ed incartare la mia brioche.
In altre parole, elementare intuito visivo, lettura istintiva dei messaggi inconsapevoli dei muscoli facciali.

Mi dice, così, di punto in bianco, lui che di me non sa nulla: "... e non essere così giù di corda; ti vedo, sai... su, che tutto passa.." in idioma vernacolare.

Gli tributo un sorriso, vuoto a perdere senza rimpianti e senza richiesta, che non costa e non risolve nulla, ma mi scalda dolcemente e lievemente l' esofago nel momento in cui lo faccio.
Al di là del bene e del male, e del bello e del brutto, al di là degli  arzigogoli cerebrali ed intellettuali, l' istinto alla solidarietà umana è, paradossalmente, animale e primordiale, spontaneo (pur se il mio caro amico Kisciotte non crede...), automatico.

Penso che non sto messa bene, se basta che un conoscente non mi consideri trasparente per instillarmi un sentimento di leggera riconoscenza e sollievo.
Si tratta di regolare, allora, l' autostima.
Sospetto d' averla lasciata sedimentare su livelli bassi, a seguito della mia antica attitudine all' autocritica crudele, che altro non è, in ultima analisi, che velleità di perfezione.

E comunque sia, quella gentilezza rimane congelata: questo è il dramma autentico.
Non produce altro, si avvolge su sé stessa, non trapassa la cotta della solitudine e la barriera dell' altrui inconoscibile.
Un rigagnolo, grazioso, sì, ma che si incanalerà nel torrente annichilente e dispersivo del Nulla, perché, a farsi onda dirompente, ci vuole l' attitudine del mare.

mercoledì 11 gennaio 2012

Amori da morire -4-

Il dilemma rimaneva irrisolto, nonostante il trascorrere degli anni e l' accumulo di esperienze, nonostante incontri, confronti, assaggi e vezzosi piluccamenti, smottamenti dello spirito, devastanti sensi di colpa, vertiginose cadute di autostima, esecrabili picchi di esaltato egocentrismo.

*
Ma l' ansia sentimentale è un' affezione soprattutto femminile? 
Dov' è: in una masnada di ormoni schierata in formazione a testuggine, la responsabile? Siamo strutture comandate dai nostri stessi neurotrasmettitori? La chimica cerebrale domina scelte e bisogni?
Pare che le diversità di genere nelle aree cerebrali si formino intorno al sesto mese di vita uterina: donne si nasce, non si diventa; donne si è, almeno in potenza; più tardi, poi, il proprio personale patrimonio di individuo -indole, temperamento, natura, da chissà quale soffio cosmico e di energia resi sunto dell' essere-, così posto nel mondo, svilupperà ciascuna espressione di femminilità.
Per uno stuolo di donne rimarrà preferenzialmente 'ormonale': ed ecco la concitata rincorsa all' approvazione, all' accettazione, soprattutto da parte dell' altro maschile, ed allora necessariamente limitata alla seduzione dei sensi, attraverso un' unica chiave di lettura dei rapporti tra sessi.
Femminilità un po' triste. Servile. Spesso scurrile. Frequentemente patetica. Riduttiva. Noiosissima.
Per altre, si tratta invece di conciliare un' intero sistema universale pensato e fatto a guisa di maschio, con le loro autentiche peculiarità e dotazioni in termini di (iper)sensibilità, empatia, esagerata e spesso dolorosamente incontenibile attitudine alla comunicazione.  
La De Beauvoir, mentre da un lato afferma con grande impeto che le differenze di genere sono tutte culturali, dall' altro evoca quella particolare ansia, quella ricerca  dell' altrove, quasi sempre destinata all' eterna frustrazione, che io vedo maledettamente, ma non meno meravigliosamente, femminile. Certo, non è prerogativa di Donne, probabilmente, ma una donna riuscirà a decifrare perfettamente le seguenti parole e ritrovarle nel proprio nucleo e nella propria, presumibilmente ancestrale, memoria.

"Si può cercare qualcosa di molto specifico; un padre, un bambino, un'anima gemella; la sicurezza, la verità; un' immagine esaltata di te stessa. O il tuo bisogno può essere ambiguo, indefinito o addirittura infinito. Puoi volere qualcos' altro, qualsiasi cosa purché tu non l' abbia." (Quando tutte le donne del mondo... - Simone de Beauvoir)

Se Pascal addiviene a Dio in forza di una probabilità e di un' induzione pur opinabili, io giungo, grazie ad un  percorso similare, alla conclusione che forse è esattamente il richiamo a quell' 'altrove', tutto intero introvabile -se non per una congiuntura altamente casuale e perciò improbabile- in un solo individuo, a rendere sempre viva e palpitante l' eterna ansia sentimentale di una femmina umana della mia foggia.


*

Ogni volta che la re-incontrava avvampava come uno scolaretto. Era un particolare che lei riusciva ad amare, pur nel sentimento di fondo che nutriva per lui e che rimaneva pervicacemente di sottile disprezzo, ma senza protervia.

"Come mai qui, che combinazione questo incontro, era un film che volevo proprio vedere, mi ricorda la nostra bella adolescenza, i cortei, il Che, le bandiere, i sogni."
"Ma quando mai..." -lei pensò- "... non c' eri. Tu non ci sei mai stato, nei nostri cortei. Ricordo bene: tu appartieni ai cauti. Lo sei da sempre: tu sei un fottutissimo cauto. Borghesuccio piccolo piccolo e prudente. A te le scelte di campo sono sempre state invise, sei troppo ingenuo, troppo elementare. Pensavi che bastasse ascoltare le canzonette d' oltre oceano per dirsi rivoluzionari. Poi, la domenica, andavi alla messa, a recitare i credo, ché mamma in questo modo t' aveva addestrato a fare. Statti zitto, almeno, e togliti di torno o potrei scivolare su codesta tua bava di ignavia."
E sgambettava loro dietro, cercando l' assimilazione impossibile, come aveva sempre fatto, come aveva fatto al tempo dell' Amore abbacinante che avrebbe potuto, fosse pure per un solo giorno, ma totalmente, liberarlo dalla sua mediocrità.

"Ti amo. Ti amo da morire. Non passa, non passerà mai. Anche se sei di nuovo sposata, anche se hai un figlio. Ti amo sempre, ti amo ancora. Io... ho avuto paura, allora. Fin dai banchi di scuola mi incutevi quest' amore spaventato: ti immaginavo guerrigliera in Sud America, suffragetta tra i gendarmi, Cassandra visionaria, Saffo sulla rupe. Tutti, sappilo, ti vedevano così. Comunque irrangiungibile e disumana. La colpa è tua, se mi sono sentito allora così fragile: hai usato sempre la tua personalità come un maglio per minimizzare gli altri, per umiliarli, per punirli di mancare del tuo stesso coraggio, o semplicemente, di non essere esattamente come te. Sei certa che questo ti renda migliore? "
"Il Verme ha  pensieri capaci di profondità: meraviglia." si disse lei, con leggero sarcasmo. " Non capirà mai, però, che la vera discriminante tra amore sacro ed amor profano - ma grandioso- sta nella preponderante presenza, nel secondo, della fantasia."

Poi, fatalmente e disgraziatamente, si permise di commuoversi. Un' altra volta, nel vecchio gioco degli specchi.

"Amor, ch'al cor gentil ratto s'apprende 
Amor, ch'a nullo amato amar perdona..."


(continua, forse) 

 


venerdì 6 gennaio 2012

Dubito.

Nelle note intimistiche a me pare stia racchiusa la chiave di lettura e spiegazione dei fatti del mondo, delle scelte, di quella porzione di verità (pur sempre  minuscola) di cui si è capaci, nonché la vera scoperta, il disvelamento, dell' altro.
E' il motivo per cui vi ho improntato questo mio spazio -raccolto tempietto con velleità di nano-agorà-ed anche quello per cui in genere rifuggo o diffido da chi sentenzia, snocciola nozioni, dichiara, declama con grande sicurezza e compiacimento.

Non solo mi riconosco in coloro che cadono e nei perdenti, quindi, ma anche e soprattutto nei dubbiosi, nei consapevoli ignoranti e nei semplici purché ignari della loro stessa semplicità.
Non vi è, innanzitutto, alcuna volgarità nelle persone semplici -nell' accezione che intendo-, né la discriminante tra 'semplice' e complesso (iperstrutturato) è data da qualche acquisizione di studio o di censo. Chi ne fa una questione di carte è un imbecille.
Einstein era una persona semplice, e la sua genialità una caratteristica del suo intelletto, ad esempio.
La volgarità è prerogativa delle indoli disinteressate all' apprendimento, prive di curiosità, dedite all' edonismo spicciolo ed ancorate alla Terra.

Ma guai ai piccoli e grandi frequentatori più o meno specializzati, del pensiero.
A loro spetta, come aspro premio, il dubbio.




Poi, però, mi domando a che cosa possa mai servire questa forma diaristica resa pubblica, pur con il massimo pudore, pur con la massima delicatezza.
L' ennesima forma di autoreferenzialità? Ancora e soltanto e sempre famelico egocentrismo, per quanto sotterraneo, stemperato, filtrato, emulsionato con altri fini che forse per vie tortuose non riconducono che a sé stessi?
E mi prende la tristezza: so che ciascuno non riuscirà che a viaggiare sul proprio binario, fatalmente programmato dalla sua stessa indole.
E mi dispiace: comunicare rimane dunque una battaglia persa, ed è sempre un gioco stilistico, estetica pura ma vuota od effimera, finzione, gioco?
E dev' essere per questo che non esiste dichiarazione a me rivolta che non m' instilli dubbio, ora, e sento che ciò presuppone la più grave delle perdite, la misura esatta della caducità umana: minimizza, distruggi la sua parola, e l' uomo più non è.
E vorrei credere, e non posso.
Pur in più che adulta età, ho capito quanto possano essere capziosi le voci ed i silenzi; prima di allora, deliberatamente, ho voluto conservare un nocciolo di ingenuità fanciullesca, creduloneria utopistica, il sempiterno irrununciabile sogno. Immagino succeda a tutti, prima o poi: la differenza è data, probabilmente, dalla più o meno tenace affezione a quell' infanzia che ciascuno di noi sa essere la sola custode di una felicità in potenza che non potrà mai più replicarsi in vita successivamente.
Sono pietose strategie di sopravvivenza.

Io sono sciocca, lo so, ad amare entità che alla fine sono indifferenti e passeggere: è un atto di debolezza imperdonabile, alla luce della consapevolezza di cui sopra, che pur rimane.
Tra l' altro, quelle stesse entità non mi amano affatto nella stessa misura e con la stessa intensità: anche lo scambio non può dirsi soddisfacente.
Ho pochi, ma gravi vizi, e questo è stato il più esecrabile, sempre, ed il più catastrofico.
Ed è incurabile.







mercoledì 4 gennaio 2012

Caduta

Piango la mia schiavitù.
Per una volta penso a me, dal groviglio di queste ostinate e contorte radici insinuate nella Vita.
Non m' importa, oggi, di quella altrui, giacché conta, nella maggioranza dei casi, sulla totale connivenza delle vittime.

Perché hanno voluto inventare un Dio tanto distante dalla verità umana?
Per bisogno, evidentemente: ogni cosa si fa per bisogno, fosse pure soltanto per bisogno di comodità.
E' semplice delegare le risposte, ed è perfino comprensibile: l' umano è tendenzialmente ozioso, con propensione al sogno. Quando poi acquistate in blocco -un pacco regalo chiuso e da lasciare rigorosamente ermetico- danno la pace relativa, l' equilibrio imperfetto ma sufficiente a sedare i morsi più cruenti della sete di conoscenza. Ai più tanto basta. E che può importarmene, allora...
Che continui pure a  succedere ai ciechi, ostinati a considerare soltanto una prospettiva, la sola di cui la loro perduta vista conserva ricordo. Non è più affar mio. Completerò, sola, la mia gioiosa danza macabra.


Voglio affogarmi, adesso, nelle mie stesse lacrime, in questo pozzo tiepido di dolore stemperato dalla compassione per me stessa, e per tutto. Per tutto.
Ed è un errore. So che non dovrei.
E' dolce, in fondo: non fa male, se lo si lascia decantare, annullando le increspature di un' altrui volontà conflittuale ed arrogante che abbisogna di definizioni, etichette, appigli moraleggianti.

Quanto odio tutti i fraintendimenti, e le aspettative, e le mire, e le spudorate tracotanti attese.
Amo se voglio, amo se posso, se è degno. Mai su richiesta, mai su pretesa: non è un credito esigibile.
Ma pensano sempre, SEMPRE, che lo sia, a prescindere da tutto, e vogliono essere saldati, i miserabili, forti di un ricatto spesso nefandamente economico.

Non si abbattono i pettirossi. E' male.

Com' è inevitabile, allora, deturpare i merli del castello, e repentinamente distruggerlo. Sono avvezza alle distruzioni, so rinascere ancora dalle macerie, pur ignorando per quanto ancora: è questo implacabile ed ancestrale virus della vita.
Ah, Cielo, come sono stanca.
Ma Friedrich bacia queste lacrime quando afferma d' amare coloro che cadono perché han provato, se non altro, ad attraversare.

Il passo più arduo è la conquista della gioia.
La gioia congiunta alla conoscenza, malgrado la conoscenza.
Senza Dio, senza gli uomini.
Malgrado Dio, malgrado gli uomini.

lunedì 2 gennaio 2012

Lo que màs quiero



QUEL CHE PIÙ AMO *

L'uomo che più amo
ha il fiele nel sangue.
Mi priva del suo riparo
pur sapendo che pioverà,
pur sapendo che pioverà.

L'albero che più amo
è duro di comprendonio:
mi priva della sua fresca ombra
sotto i raggi del sole,
sotto i raggi del sole.

Il cielo che più amo
si sta rannuvolando:
i miei occhi sono inutili,
li ammazza il buio,
li ammazza il buio.

Il fiume che più amo
non riesce a trattenersi:
col rumore delle sue acque
non sente che ho sete,
non sente che ho sete.

Senza riparo, senza ombra,
senz'acqua e senza luce,
manca solo che un coltello
mi privi della salute,
mi privi della salute.


* Testo originale Violeta Parra, Traduzione di Riccardo Venturi, fonte: Internet
(Nota: Nella versione degli Inti-Illimani, "el hombre" è sostituito da "la mujer". )
*
Ad amare ciò che è evidentemente amabile son capaci tutti, e senza il minimo sforzo, né particolare impegno.
Ma il vero  talento -ed in quanto talento è per forza innato- si rivela forse nell' amare nonostante e consapevolmente.
Amare il figlio che non ti ama; l' amico che ti ha delusa; la natura che sa essere devastante, lo scambio dell' intelligenza tra umani, gli impulsi nervosi che miracolosamente sappiamo trasmetterci tra sconosciuti,  la vita che si conclude sempre con la morte.
Così non c' è fatto od atto che ne sfugga: ci si ritrova ad amare semplicemente come stile d' esistenza.
E quest' amare è rivoluzionario.

Mi dolgo davvero per chi non lo sa: per i parolai, gli scrittori di tomi sulle improbabili divinità a sostituzione di un sostanziale infelicemente perplesso vuoto, i cesellatori di dotte nozioni inutili, i cattivi filosofi, i maestri ed i profeti delle altrui vite dalla personale esistenza misera e squallida.  
Sono una rivoluzionaria, sì, credetemi, completamente pazza; instancabile ginestra nel deserto, decisa ad irridere il nulla, la noia delle ordinarie sconfitte quotidiane, il grigio crepuscolo delle abitudini e le loro scandalosamente rassicuranti catene.  A guardarmi dentro trasecolereste: c' è da svenire. Il fuoco che arde è talmente violento da togliere il fiato ("...e caddi come corpo morto cade.."), ed i suoi crateri paiono roventi crogioli per fusioni purificati fino a mantenere soltanto l' essenza. Detesto ogni altro ammenicolo. Sono in viaggio verso l' assoluto, ad occhi spalancati, conscia del fatto che basterebbe appena non esser tanto soli per sovvertire il mondo.