mercoledì 26 ottobre 2011

Psicopatologia di una blogger -2-

Arriva il momento in cui l'  hai imparata così bene da scoprirla perfettamente interiorizzata, ormai pilastro della tua struttura sotterranea, anello aggiunto di dna, cellula pellegrina nel tuo sangue.

La solitudine di ciascun umano è appurata: un dato oggettivo ed inoppugnabile.
E lei, questa austera signora tanto malinconicamente bella -com' è bello tutto ciò che, anche se perdutamente, mette a nudo l' anima-,  sa scegliere con grande perizia i soggetti presso cui, più volentieri, indugiare ed esprimersi: sono coloro che hanno maggior familiarità e frequentazioni con il concetto della morte, anziché della vita.
L' hanno troppe volte sorpresa ad agire, osservato attoniti le sue sfalciate su ciò che avevano di più caro, ed in più di qualche occasione invocata.
Adorabili minuscoli eroi, dotati più di coraggio che di respiri. Deliziosi dannati decadenti, tanto più nobili quanto più, per non opprimere con la loro incurabile tristezza i loro fratelli, vi si rivolgono sempre e nonostante tutto, con un sorriso.



Spesso ho tentato di sfuggirla, un po' vilmente, raccontando a me stessa qualche storiella, di quelle appiccicose e romantiche, in cui si trovano estemporaneamente addirittura 'belle' poesie orrende come questa:

"In un momento
Sono sfiorite le rose
I petali caduti
Perché io non potevo dimenticare le rose
Le cercavamo insieme
Abbiamo trovato delle rose
Erano le sue rose erano le mie rose
Questo viaggio chiamavamo amore
Col nostro sangue e colle nostre lagrime facevamo le rose
Che brillavano un momento al sole del mattino
Le abbiamo sfiorite sotto il sole tra i rovi
Le rose che non erano le nostre rose
Le mie rose le sue rose


di Dino Campana

(per Sibilla Aleramo)"

laddove soltanto 'Questo viaggio chiamavamo amore' possiede una sua onesta bellezza, ed il resto è accozzaglia di suoni monotoni, eco d' eco, quasi come bastasse il martellìo di un lemma a rendere armonico un insieme di parole aspirante ad esprimere tensione sentimentale.

Il vero viaggio, il divenire dell' anima, così come la morte, è solitario, e non c' è verità più crudele di questa.

Pazzia.
Altro non si può definire il generale modo di stare al mondo ed a contatto con i propri simili.
Pochi giorni -per qualcuno di più, per qualcun altro ancor meno-, da consumare sopra la crosta terrestre, tra angoscia ed esaltazione, entrambe clamorosamente sbagliate.
Alla resa dei conti, ecco che ci si ritrova, smaterializzati, a cercar consenso o solo comprensione confronto e contatto in questo modo ridicolo e miserabile: scrivendo cose.
Tutto ciò, magari mentre le persone solide in carne ed ossa (da contare sulle dita di una sola mano) su cui, timidamente e pur con immensa apprensione, si sperava di poter contare, ci abbandonano e si allontanano.

Beh: meno male che ci sei tu, pur se non ti conosco.










                           
 

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