lunedì 13 giugno 2011

Rischiare, a prescindere

Io, lo giuro sul mio onore, sono una persona naturalmente incline alla benevolenza. Non so da dove si origini 'sta sindrome, ma il fatto è che, di primo acchitto, se non mi costringe ad odiare qualche suo lapalissiano carattere ripugnante come la spocchiosità, l' aggressività e la volgarità -che si palesano senza tema di errore nei primi cinque minuti di osservazione-, amo l' Uomo, gli voglio proprio bene, mi riempie di  sentimenti di dolce tenerezza.

Mi colma di stupore, ogni volta che ci rifletto, sentir attribuito il precetto "Ama il tuo prossimo come te stesso" a Cristo, quando invece scopro essere questa la più naturale ed automatica delle umane inclinazioni laddove non intervengano tensioni di tipo -genericamente- culturale. Uno degli innumerevoli motivi per cui mi è sempre stato impossibile attribuire la presunzione di buonafede agli ecclesiastici ed alla maggioranza dei cattolici convinti praticanti è questa loro arroganza nell' attribuire virtù teologali a ciò che è semplice patrimonio della specie.

Noi propendiamo naturalmente sia verso ciò che ci somiglia, sia verso ciò che ci meraviglia e stupisce anche quando a noi contrario; ci attrae ciò che riconosciamo e pure, con medesima intensità, ciò che ci pare straordinario. Ma soprattutto, abbiamo bisogno d' uscire da noi stessi, per non sentirci intrappolati in una solitudine che, se pur rappresentasse meditazione sulla verità, se pur implicasse l' ottenimento di somma sapienza, ci lascerebbe comunque l' eterna nostalgia della felicità che sappiamo immaginare soltanto in relazione  agli altri.

E' per questo, io penso, che non esiste delusione più cocente di quella che può derivare dalla defezione di un amico.
Eppure, non esiste alcun rimedio.
L' eventuale determinazione alla prudenza, la cautela, la diffidenza, la titubanza dettata dal timore del rifiuto, hanno il duplice risultato di tutelare dal possibile dolore ed impoverire la vita dell' anima.

Perciò si deve sempre rischiare, a prescindere.

Io l' ho fatto con Adriana, Dario, Lorenzo, Renzo, Massimo, Roberta, ed altri ancora, per citare gli ultimi, ma ora non so più che facciano, che pensino, come vivano e se mi ricordino, eppure, tutti, hanno conosciuto ogni dettaglio delle mie vicende, anche le più personali e profonde, ed hanno con me talvolta mangiato, o pedalato, o girovagato per le calli veneziane, o camminato su sentieri di montagna, o conversato a lungo. La sera in cui mia madre, ancora giovane, morì improvvisamente, i primi quattro erano a cena nella mia casa, ove avevo cucinato per loro cinque portate di pesce. I momenti successivi alla tragedia li abbiamo vissuti insieme, nostro malgrado, nell' assurdità di una situazione impensabile, atroce e letteralmente ottundente. Abbiamo percorso insieme il tragitto in auto, 11 chilometri, per constatare la morte della persona più importante della mia vita.
Da quel momento non erano i miei amici, ma i miei angeli.
E mi sbagliavo: ero io, ed io soltanto ad amarli, ma non lo sapevo e, comunque, il mio amore bastava per tutti.
E' bastato il sedimento di poco tempo, l' avezzarsi a nuove personali assuefazioni, l' imbarazzo a sostenere qualche opinione diversa, un calo di disponibilità causato anche da gravosi impegni, il modificarsi delle prospettive di probabili reconditi fini che, in loro, erano l' autentico alibi dell' amicizia, forse il timore d' essere troppo coinvolti, perchè si atrofizzassero quelle celestiali ali.

Non c' è ingenuità più sciocca, né più ricorrente, di quella che ci fa supporre la sintonia con altri sé diversi dal nostro.
La delusione che può derivare dall' insufficienza morale, dall' aridità e superficialità dei nostri conspecifici non può essere loro attribuita come colpa, ma, semmai, constatata come un nostro clamoroso errore di valutazione, di cui cercare di fare ammenda. Con noi stessi, però.

Siccome io lo faccio puntualmente, non mi riesce proprio di guarire dalla sindrome.


3 commenti:

  1. Sai scrivere molto bene su questi complicati sentimenti, cara Morena. Confrontandomi, mi sento un poco “asociale” perché all’amicizia ho sempre addossato dei compiti molto meno gravosi, lasciando che il livello di “ingaggio” fluttuasse liberamente sia in intensità che in frequenza. Probabilmente l’essere maschio e cresciuto in un ambiente che tiene in gran pregio l’autonomia, economica ma anche emotiva, mi predispone a confinare al rapporto amoroso certi tipi di intimità, che taluni invece raggiungono anche nel rapporto amicale. Così, se ci penso bene, mi accorgo che non mi sono mai sentito tradito da alcun amico, ed ho anche accettato senza il minimo trauma qualche distacco secco ed apparentemente immotivato, per il quale non sono andato affatto a indagare, pensando che chi si allontanava potesse avere sue ragioni che nulla avevano che fare con mie manchevolezze, e se invece lo avevano allora amen, meglio così. Insomma il mio motto in questo campo è “take it easy” anche se devo ammettere che qualche amico più vicino alle tue disposizione tende vedere quest’indipendenza come una sorta indifferenza. Ma credo sia invece questione di caratteri. Ciao

    RispondiElimina
  2. @ elio

    Può essere che la tua sia una spontanea saggezza, ed il mio un disperato e caparbio bisogno di affrattellamento con altri spiriti in cui cerco qualche affinità, per sconfiggere questa pesante consapevolezza di solitudine interiore che so essere di tutti gli uomini, ma di cui non so darmi pace, pur se, implacabilmente, la esamino e la discuto, anche qui, ad ogni occasione, con le mie povere parole.
    Ma c'è un altro aspetto, io credo non meno pregnante, nel sentimento amicale: nella sua forma più alta costituisce senza paragoni il massimo dei piaceri. O così io lo vivo. E' pur sempre una forma d' amore, ma lata e generosa che rifugge i meccanismi egoistici ed utilitaristici che quasi sempre costituiscono il vizio occulto del rapporto di coppia.
    Certamente, come tu dici, chi vuole andare vada: non ho mai trattenuto nessuno che non desiderasse, spontaneamente, stare, ma ogni volta -lo confesso- è stato dolore. Silenzioso, stoico, amaro e dignitoso, ma dolore autentico e profondo. Lo so: pare frutto di un retaggio romantico, senza dubbio idealistico. Forse vorrei l' Uomo migliore di quel che, oggettivamente, possa ragionevolmente essere, seppur io creda anche che il nostro tempo, il nostro modo di vivere i rapporti infraumani,il complesso sistema economico, i suoi ritmi, le finalità mercantili, la volgarizzazione dei bisogni e la scaletta delle priorità esistenziali oggi,nonché la conseguente tendenza a non chiedere e a non attendersi troppo (niente illusioni) sul piano relazionale, siano il segno di una generale degenerazione dell' umanità.
    Devo aggiungere, poi, carissimo Elio, che -quantomeno nel mio caso- esiste anche la variabile dell' assurdità a rendere più penose le circostanze del "tradimento": se avessi dovuto affrontare la circostanza tragica che ho descritto nel post in una situazione diversa -per esempio da sola- esso non si sarebbe, probabilmente, appesantito del pathos che invece ha acquistato nel mio animo, e contemporaneamente non mi avrebbe neppure consentito di conoscere a fondo le persone che sentivo amiche. Non solo di caratteri allora forse si tratta quando confrontiamo le nostre diverse reazioni od il nostro "sentire" l' amicizia, ma anche di occasioni. Neutre, facili, serene, o tragiche.
    Ciao, alla prossima, e gradisci un amichevole sorriso :-)

    RispondiElimina