sabato 25 giugno 2011

L' ascesa dell' eletto

Bosh- Ascesa dell' eletto- Palazzo Ducale, Venezia
*dedicato ad Elio*
Scrivere queste mie corbellerie è un' immane fatica e non mi dà né sollievo né liberazione, né -tanto meno- soddisfa qualsiasi altro eventuale fine velleitario:  lo faccio per me, per quel residuo di tenerezza che sento di dovermi, in qualità di essere troppo umano. Un po' miserabilmente umano, naturalmente: non è certo il caso di darsi tante arie soltanto per l' appartenenza alla più contraddittoria delle creature viventi.
Si tratta di evitarmi la chiusura ermetica e troppo mortalmente definitiva nel nocciolo del dolore -sunto del vivere-, per illudermi ad occhi aperti che valga sempre e comunque la pena di porsi domande, di riflettere (tra me e me, se di più non si può), anche se non ho ancora scoperto il covo del sedicente beneficio.
Il cervello è un organo neuroplastico: conviene tenerlo in esercizio, ché tende, altrimenti, ad avvizzire. Da quando osservo di più il silenzio e frequento meno l' umano consorzio, ho dimenticato molti nomi e molte parole. E' inquietante.

"L' essere effettivamente, e il non potere in alcun modo essere felice, e ciò per impotenza innata ed insuperabile dell' esistenza, anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tanto ben dimostrate e certe intorno all' uomo e ad ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra esperienza. Or l' essere, unito all' infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a sé stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a sé stesso e suo proprio inimico. Dunque l' essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con sé medesimo.
[...]
Intanto l' infelicità necessaria dei viventi è certa. E però secondo tutti i principi della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l' essere. [Sileno! -n.d.r.] Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è sia meglio di qualche cosa?
L' amor proprio è incompatibile colla felicità, causa dell' infelicità necessariamente, se non vi fosse amor proprio non vi sarebbe infelicità, e da altra parte la felicità non può aver luogo senza amor proprio, come ho provato altrove, e l' idea di quella suppone l' idea e l' esistenza di questo.
[...]
Non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione."

(Giacomo Leopardi, Zibaldone)

Bene, beviamo allora fino in fondo dal calice dell' infelicità e conserviamo uno straccio d' amor proprio.

***
Ora, però, non tutte le persone che io osservo, o con le quali mi intrattengo, sono disposte a dichiararsi infelici. Un po' ne proverebbero vergogna. Gli stereotipi vogliono l' uomo vincente e soddisfatto. Sovrano.
Dirsi infelici equivale, per loro, a dirsi sconfitti o falliti. Per quanto distorto e desueto suoni l' aggettivo "borghese", provo a dire  che "quel" tipo di infelicità leopardiana, così irrimediabile e vasta, al borghesuccio fa orrore e lo destabilizza perché non la capisce e non  l' avverte: non è dunque sufficiente avere un po' di cose indispensabili, per dirsi soddisfatti? Qualche possesso -una o due case-, i figlioli che vanno bene a scuola, un discreto conticino in banca, le vacanze -magari anche "colte" ed alternative, negli agriturismi delle crete senesi  (ecchediamine, siam mica bifolchi!)-, un livello discreto di salute, insomma le cosucce, i fatti, le utilità, la praticità, la prassi...
La ragione non rappresenta proprio per nulla uno stendardo di cui andare fieri o per cui combattere, ma, semmai, una fastidiosa propaggine nervosa, uno spocchioso orpello per fuori di testa.
Non che essi abbiano trovato l' élisir della felicità, si siano abbandonati totalmente tra le braccia di Natura e, dimentichi totalmente di sé, respirino con il Suo respiro in panica armonia... no no: essi si dicono felici anche nelle loro brutte e caliginose città, nonostante i loro ritmi disumanizzanti di esistenza metropolitana, i loro mediocri rapporti di coppia svuotati perfino di passione, le loro amicizie che di pleonastico hanno soltanto il nome, e nonostante la bassezza morale, le infamie, le atrocità, le ingiustizie del mondo.
Il "resto", quel vizietto del pensiero, quell' uggioso brontolio dei filosofi, riguarda sostanzialmente l' Islandese e la Natura matrigna, non è mica affar loro ...

***


Si discorreva virtualmente iersera con Elio, del tunnel di luce: dopo un' esperienza di pre-morte, chi è tornato ha raccontato sempre la medesima cosa, vale a dire d' aver provato un assoluto senso di benessere, il desiderio di non "ridiscendere" e d' aver mutato totalmente il proprio approccio all' esistenza. Dunque, quale che sia la sostanza del fenomeno -ultraterrena o fisiologica- "uscire dal sé" rende felici.
Solo che non si può provare scientemente.
Ennesima fregatura.




4 commenti:

  1. Morena cara, ma perché vuoi estorcere loro una confessione d’infelicità? Quel loro "dirsi" felici a prescindere dalle condizioni oggettive, può anche essere visto con simpatia, simboleggiare l’eroica tenacia della vita, il “conatus” spinoziano. L’esistenza che abbiamo a disposizione, offre certe dolcezze, talvolta ben definite, che sarebbe folle non assaporare per coerente solidarietà con Leopardi, il quale nelle formulazioni che riporti mi sembra alquanto esagerato, ma che pure ho amato molto: le sue “operette morali”, e certe poesie, secondo me, vibrano di una felicità segreta, inconfessabile ma evidente. Abbiamo tanti piani nell’anima e non tutti sono in comunicazione con l’esterno. Che ci importa di giudicare gli altri? Il più delle volte non abbiamo elementi sufficienti per delle considerazioni profonde e quelle congetture malevole che tipicamente operano i “dandy”, sulla base di quelle stesse coordinate esteriori che furbescamente manipolano in anticipo, nel loro "smarcarsi", io le trovo semplicemente odiose, perché son fatte dello stesso principio del razzismo: la semplificazione di comodo.
    Hai tante qualità Morena, e concediti un po' il gusto di un po’ di vanità :-)

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  2. Un po' di un po' di troppo :-) Ma scrivo di corsa. Ciao

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  3. @ elio
    Sì, Leopardi, pur nelle sue pessime condizioni di salute e nello sfortunato aspetto fisico, possedeva un' immensa energia vitale, perché "se gli uomini preferiscono la vita a ogni cosa, e fuggono la morte sopra ogni cosa, ciò avviene solo perché ed in quanto essi giudicano la vita essere il loro maggior bene (o in sé, o in quanto senza la vita niun bene si può godere, e la morte essere il loro maggior male." (Zibaldone)
    Ma, Elio caro, io non vorrei mai che chi si sente felice abbia a rinunciare a quest' idea, né mi arrogo il diritto di giudicarla folle.
    Forse sanno qualcosa che io non so ancora, a causa della mia stessa cecità, od inconsapevole presunzione.
    Per me si tratta soltanto di provare a capire, di prendere atto di differenze -intime, interiori- tra gli umani, la cui comprensione potrebbe anche saper rendere meno penosa l' angoscia che talvolta mi prende.
    Anche la tua osservazione è una bella ed utile chiave di lettura.
    E -pensa!-, in un certo senso, la tua dichiarazione di tolleranza trova un supporto filosofico nello stesso Leopardi che ritiene necessari all' uomo nello stato sociale errori che non lo sarebbero allo stato naturale. "Conchiudo che la filosofia la quale sgombra dalla vita umana mille errori non naturali che la società aveva fatti nascere (e ciò naturalmente), la filosofia la quale riduce gli intelletti della moltitudine alla purità naturale e l' uomo alla maniera naturale di pensare e di agire in molte cose, può essere, ed effettivamente è, dannosa e distruttiva della società, perché quegli errori possono essere, ed effettivamente sono, necessari alla sussistenza e conservazione della società, la quale per l' addietro li ha sempre avuti in un modo o nell' altro, e presso tutti i popoli; e perché quella purità e quello stato naturale, ottimi in sé, possono essere pessimi all' uomo, posta la società; e questa può non poter sussistere in compagnia loro, o sussisterne in pessimo modo, come avviene in fatti al presente."

    Quanto alla tua esortazione finale, la tua gentilezza è squisita, Elio, ma credo che provare a sottrarsi alla vanità -egoisti come siamo- non sia mai mai abbastanza :-)

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  4. verissimo, il mio cervello è già avvizzito abbastanza! ^^

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