mercoledì 29 giugno 2011

Il guadagno della memoria

"Egli sapeva quello che sua madre pensava e che lei lo amava, in quel momento. Ma sapeva, inoltre, che non è gran cosa amare una creatura o almeno che un amore non è mai sì forte da trovare la propria espressione. Di modo che sua madre e lui si sarebbero sempre amati in silenzio. E lei sarebbe morta -o lui- senza che, durante la loro vita, fossero potuti andar oltre, nella confessione del loro affetto. Nello stesso modo egli era vissuto accanto a Tarrou, e questi era morto, quella sera, senza che la loro amicizia avesse il tempo di essere veramente vissuta. Tarrou aveva perduto la partita, come diceva; ma lui, Rieux, cosa aveva guadagnato? Aveva soltanto guadagnato di aver conosciuto la peste e di ricordarsene, di aver conosciuto l' amicizia, e di ricordarsene, di conoscere l' affetto e di doversene ricordare un giorno.
Quanto l' uomo poteva guadagnare, al gioco della peste e della vita, era la conoscenza e la memoria."
(A. Camus, La peste)

... a patto, naturalmente, che si parli di un ben determinato tipo d' uomo, uno che trova assolutamente necessario vivere in consapevolezza, presente a sé stesso, uno che non tema di affogare immergendosi nei flutti della propria coscienza e ne risalga intenzionato a cercare universalità, uno che non si faccia bastare il suo essere senziente, che frammischi intelletto ed anima, e, soprattutto, un uomo che ponga l' uomo sopra ogni altra cosa, oltre il suo egoismo e la sua squallida vanità.
A me, siffatto tipo, pare rarissimo. Rarissimo. Lo cerco, in un bisogno tutto ideale ma potentissimo, che fa sbiadire ogni altra promessa e prospettiva, e l' incontro, di tanto in tanto nel corso dei decenni, in qualche pagina di chi non c' è più.

"conoscenza" e "memoria": di altro il gioco della vita non consiste, è il massimo risultato della partita.
E conoscere è dolore. E ricordare è dolore. Ma che importa; se è il solo mezzo per non esistere in modo buffonesco, si deve.

 

martedì 28 giugno 2011

Un pozzo di nonsocosa

Avere una sorta di rimpianto per cò che non si è mai conosciuto né vissuto (e per quanto tu possa imparare o vivere non sarà mai abbastanza) spesso è ad un soffio dal diventare intollerabile.
Questa consapevolezza delle potenzialità, infinite, che la nostra piccola vita mortale comprime in sé, consentendoci nel contempo di contemplare, una per una, ogni progressiva rinuncia,   è quanto di più lacerante si possa provare.
Eppure non si tratta del desiderio.

Peder Severin Kroyer - Marie in the Garden [1895]
No, non sono un cameriere (di Sartre): è il lavoro che faccio (e che mi succhia ogni energia, impedendomi di fare il miliardo delle altre attività che potrei e saprei );
non sono una madre, né mi distingue il mio genere: è una delle cose che mi sono accadute;
come l' aspetto: gradevole o no;
non sono neppure un pittore, un artista, uno scrittore: c' è dell' infinitamente  altro;
né un operaio, un medico, un commercialista, un insegnante, un disoccupato, un questo od un quell' altro...;
e neppure l' intelletto, la ragione, esauriscono una caratterizzazione.

Ho altri sommovimenti, brulicanti, in questo pozzo di nonsocosa che mi porto appresso, come un geyser di impulsi di sconosciuta energia, la cui fucina rimane imperscrutabile, misteriosamente insondabile, arroventata e nera.
Ma cos' è mai l' anima. L' anima che c' è; l' anima che è. E porta  sempre altrove.
Non c' è luogo che sia sua patria, non c' è gemella che riconosca, non c' è riparo che la riposi.
E' perenne movimento e perenne rimpianto di ciò che incessantemente lascia, entrambi di divorante intensità.
Ma se è una funzione quella cui adempie, dev' essere per forza questa: portarmi via, salvarmi dalla mortificazione di un' esistenza di rinunce, di accomodamenti, di limiti, di noia.

Com' è brutta, anche la meno brutta realtà.
La politica, il narcisismo umano, questo web di parolai, il distacco degli uomini, io stessa...

Attimi. Attimi di ossigeno metafisico. Al risveglio, le braccia sono tese e stringono il nulla.
Nel volo immaginifico, soltanto, ho vissuto davvero. 


 

lunedì 27 giugno 2011

Who by fire



CHI COL FUOCO

E chi col fuoco. chi con l'acqua,
chi alla luce del sole, chi di notte,
chi per ordine superiore, chi per processo,
chi nel felice mese di Maggio,
chi per lento decadimento,
e chi dirò che sta chiamando?

E chi scivolando via in solitudine, chi coi barbiturici,
chi in questi regni d'amore, chi per un colpo improvviso,
e chi per una valanga, chi per polvere da sparo,
chi per la sua avidità, chi per fame,
e chi dirò che sta chiamando?

E chi per coraggioso assenso, chi per incidente,
chi in solitudine, chi in questo specchio,
chi per ordine della sua signora, chi di propria mano,
chi in catene mortali, chi nel potere,
e chi dirò che sta chiamando?

sabato 25 giugno 2011

L' ascesa dell' eletto

Bosh- Ascesa dell' eletto- Palazzo Ducale, Venezia
*dedicato ad Elio*
Scrivere queste mie corbellerie è un' immane fatica e non mi dà né sollievo né liberazione, né -tanto meno- soddisfa qualsiasi altro eventuale fine velleitario:  lo faccio per me, per quel residuo di tenerezza che sento di dovermi, in qualità di essere troppo umano. Un po' miserabilmente umano, naturalmente: non è certo il caso di darsi tante arie soltanto per l' appartenenza alla più contraddittoria delle creature viventi.
Si tratta di evitarmi la chiusura ermetica e troppo mortalmente definitiva nel nocciolo del dolore -sunto del vivere-, per illudermi ad occhi aperti che valga sempre e comunque la pena di porsi domande, di riflettere (tra me e me, se di più non si può), anche se non ho ancora scoperto il covo del sedicente beneficio.
Il cervello è un organo neuroplastico: conviene tenerlo in esercizio, ché tende, altrimenti, ad avvizzire. Da quando osservo di più il silenzio e frequento meno l' umano consorzio, ho dimenticato molti nomi e molte parole. E' inquietante.

"L' essere effettivamente, e il non potere in alcun modo essere felice, e ciò per impotenza innata ed insuperabile dell' esistenza, anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tanto ben dimostrate e certe intorno all' uomo e ad ogni vivente, quanto possa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostra esperienza. Or l' essere, unito all' infelicità, ed unitovi necessariamente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a sé stessa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso a sé stesso e suo proprio inimico. Dunque l' essere dei viventi è in contraddizione naturale essenziale e necessaria con sé medesimo.
[...]
Intanto l' infelicità necessaria dei viventi è certa. E però secondo tutti i principi della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto ai viventi il non essere che l' essere. [Sileno! -n.d.r.] Ma questo ancora come si può comprendere? che il nulla e ciò che non è sia meglio di qualche cosa?
L' amor proprio è incompatibile colla felicità, causa dell' infelicità necessariamente, se non vi fosse amor proprio non vi sarebbe infelicità, e da altra parte la felicità non può aver luogo senza amor proprio, come ho provato altrove, e l' idea di quella suppone l' idea e l' esistenza di questo.
[...]
Non può una cosa a un tempo essere e non essere. Onde ci bisogna rinunziare alla credenza o di questa o di quelle. E in ambo i modi rinunzieremo alla nostra ragione."

(Giacomo Leopardi, Zibaldone)

Bene, beviamo allora fino in fondo dal calice dell' infelicità e conserviamo uno straccio d' amor proprio.

***
Ora, però, non tutte le persone che io osservo, o con le quali mi intrattengo, sono disposte a dichiararsi infelici. Un po' ne proverebbero vergogna. Gli stereotipi vogliono l' uomo vincente e soddisfatto. Sovrano.
Dirsi infelici equivale, per loro, a dirsi sconfitti o falliti. Per quanto distorto e desueto suoni l' aggettivo "borghese", provo a dire  che "quel" tipo di infelicità leopardiana, così irrimediabile e vasta, al borghesuccio fa orrore e lo destabilizza perché non la capisce e non  l' avverte: non è dunque sufficiente avere un po' di cose indispensabili, per dirsi soddisfatti? Qualche possesso -una o due case-, i figlioli che vanno bene a scuola, un discreto conticino in banca, le vacanze -magari anche "colte" ed alternative, negli agriturismi delle crete senesi  (ecchediamine, siam mica bifolchi!)-, un livello discreto di salute, insomma le cosucce, i fatti, le utilità, la praticità, la prassi...
La ragione non rappresenta proprio per nulla uno stendardo di cui andare fieri o per cui combattere, ma, semmai, una fastidiosa propaggine nervosa, uno spocchioso orpello per fuori di testa.
Non che essi abbiano trovato l' élisir della felicità, si siano abbandonati totalmente tra le braccia di Natura e, dimentichi totalmente di sé, respirino con il Suo respiro in panica armonia... no no: essi si dicono felici anche nelle loro brutte e caliginose città, nonostante i loro ritmi disumanizzanti di esistenza metropolitana, i loro mediocri rapporti di coppia svuotati perfino di passione, le loro amicizie che di pleonastico hanno soltanto il nome, e nonostante la bassezza morale, le infamie, le atrocità, le ingiustizie del mondo.
Il "resto", quel vizietto del pensiero, quell' uggioso brontolio dei filosofi, riguarda sostanzialmente l' Islandese e la Natura matrigna, non è mica affar loro ...

***


Si discorreva virtualmente iersera con Elio, del tunnel di luce: dopo un' esperienza di pre-morte, chi è tornato ha raccontato sempre la medesima cosa, vale a dire d' aver provato un assoluto senso di benessere, il desiderio di non "ridiscendere" e d' aver mutato totalmente il proprio approccio all' esistenza. Dunque, quale che sia la sostanza del fenomeno -ultraterrena o fisiologica- "uscire dal sé" rende felici.
Solo che non si può provare scientemente.
Ennesima fregatura.




mercoledì 22 giugno 2011

Ipocrita lettore, mio simile, fratello

L’ALBATRO


Spesso, per divertirsi, gli uomini d'equipaggio
Catturano degli albatri, grandi uccelli dei mari,
Che seguono, indolenti compagni di vïaggio,
Il solco della nave sopra gli abissi amari.

E li hanno appena posti sul ponte della nave
Che, inetti e vergognosi, questi re dell'azzurro
Pietosamente calano le grandi ali bianche,
Come dei remi inerti, accanto ai loro fianchi.

Com'è goffo e maldestro, l'alato viaggiatore!
Lui, prima così bello, com'è comico e brutto!
Qualcuno, con la pipa, gli solletica il becco,
L'altro, arrancando, mima l'infermo che volava!

Il Poeta assomiglia al principe dei nembi
Che abita la tempesta e ride dell'arciere;
Ma esule sulla terra, al centro degli scherni,
Per le ali di gigante non riesce a camminare.

( Charles Baudelaire, l' Albatro, I fiori del male)

Il poeta perde l' aureola, quand' è trascinato sulla terra. Sa volare, governare il cielo, ma non è capace di vivere sulla Terra.
"La morale della borghesia mi fa orrore", scrive Baudelaire. Così sceglie di affidare il suo dolore alla bellezza (la bellezza pitagorica del sonetto!), egli è un Dandy, ossia un asceta, un monaco del bello e si ribella all' utile della società borghese. Un dandy che, tuttavia, salirà sulle barricate della seconda Repubblica in difesa degli umili e degli oppressi.
Un cattolico morto bestemmiando.
Un morbo. Bellissimo, nella sua maledizione. Una nera malattia.

***

Ah, ma non succede soltanto ai poeti; ed allora è peggio. Non è così fratelli nessuno?
Come collocare  simbolismi nella vita stritolata metropolitana, nell' untuoso facile moralismo, nella cloaca politica e civile, nella mediocrità dei gusti comuni di chi ama il pattume, ed abbisogna di culti?
Ebbrezza.
Non si può che mantenere l' ebbrezza del bello, che è qualcosa di triste, ardente e vago. "Il mistero ed il rimpianto sono caratteri del bello. [...] la gioia ne costituisce uno degli ornamenti più volgari, mentre la malinconia ne è l' illustre compagna... ".



Al lettore
Stupidità e peccato, errore e lesina
ci assediano la mente, sfibrano i nostri corpi,
e alimentiamo i nostri bei rimorsi
come un povero nutre i propri insetti.
Son testardi i peccati, deboli i pentimenti;
vendiamo a caro prezzo le nostre confessioni,
e torniamo a pestare allegri il fango
come se un vile pianto ci avesse ripuliti.
Sul cuscino del male Satana Trismegisto
lungamente ci culla e persuade
e l'oro della nostra volontà,
alchimista provetto, manda in fumo.
È il Diavolo a tirare i nostri fili!
Dai più schifosi oggetti siamo attratti;
e ogni giorno nell'Inferno ci addentriamo d'un passo,
tranquilli attraversando miasmi e buio.
Come il vizioso in rovina che assapora
il seno martoriato di un'antica puttana
arraffiamo al passaggio piaceri clandestini
e li spremiamo come vecchie arance.
Dentro il nostro cervello, come elminti a milioni,
formicola e si scatena un popolo di Demoni;
la Morte, se respiriamo, nei polmoni
ci scende, fiume invisibile, con sordi gemiti.
E se stupro o veleno, lama o fuoco
non ci hanno ancora ornato di gustosi ricami
il trito canovaccio del destino
è solo, ahimè, che poco ardito è il cuore.
Ma in mezzo agli sciacalli, alle pantere, alle linci
alle scimmie, agli scorpioni, agli avvoltoi, ai serpenti,
ai mostri guaiolanti, grufolanti, striscianti
del nostro infame serraglio di vizi,
uno è ancora più brutto, più cattivo, più immondo!
Senza troppo agitarsi né gridare,
vorrebbe della terra non lasciar che rovine
e sbadigliando inghiottirebbe il mondo:
è la Noia! - Occhio greve d'un pianto involontario,
fuma la pipa, sogna impiccagioni ...
Lo conosci, lettore, quel mostro delicato,
- Ipocrita lettore, - mio simile, - fratello!

(Charles Baudelaire, I fiori del male)




Oh dolore, oh dolore, il tempo mangia la vita...



lunedì 20 giugno 2011

Far finta di essere sana

Non credo al Destino più di quanto non creda a Babbo Natale, agli ufo, alle profezie dei Maja (per quanto, in certe circostanze, mi siano apparse perfino logiche), alla jella, al Bene e al Male, e so che la felicità altro non è che il piacere senza rimorso.

Perciò, quando risulta evidente che ogni cosa, in una vita, tende al negativo o al perennemente ostile, o al fallimento, provo a capire dove stia il vizio occulto, l' errore umano, la scelta sbagliata, la colpa, attribuibili all' artefice e protagonista di quella determinata vita.
Il presupposto di tale asserzione era (e sottolineo era) la certezza  che, in un' esistenza, data la nostra condanna alla libertà, ogni evento o conseguenza devono essere fatti risalire alla funzione razionale di scelta che costituisce l' elemento caratteristico della specie.

Ciononostante, dato il carattere aleatorio ed imprevedibile del caso, può capitare che per un' eccezionale combinazione tutti gli aspetti di una vita tendano straordinariamente al negativo, nonostante il più attento e disciplinato uso della propria buonafede.

Da qui, tutta uno strascico di eventi talvolta grandiosi: la letteratura classica mondiale, le vette della poesia, le grandi rivoluzioni della storia, la Musica colta, ed i suicidi eccellenti e non.

***
Può essere, per esempio,  che qualcuno nasca con un' orribile tara -che so, di origine genetica od altro- come successe al Leopardi, affetto da una gravissima forma di tubercolosi ossea, che suo malgrado  influenzò la sua vita rendendolo pertanto  consapevole della sconfinità capacità di soffrire dell' uomo nell' arco di una anche breve esistenza. Per una qualche -di nuovo- imperscrutabile ed inspiegabile combinazione egli fu purtuttavia dotato anche di un' immensa forza vitale, di un' intelligenza superiore, della capacità di osservazione microscopica della vita, e del talento poetico.
Ma si trattava del Leopardi, non dell' uomo o della donna della strada.

***

Il dramma dell' accanimento del caso, quindi, riguarda soltanto i signori nessuno, coloro cioè che non han nulla di geniale, ed il cui dono celeste è la sola sfiga impersonale, ma bizzarra.

Perdonate la presunzione, fratelli nessuno, voi che - come me, d' altronde- non avete avuto  la ventura della dotazione di due gobbe ed uno straordinario talento a bilanciare le bizzarrie del caso, ma io ne so qualcosa, anzi, di più, io ne sono il paradigma, anche se non è divertente ammetterlo. I miei casi, vi assicuro, sono ben strani ed ostili.

La mia vita è lo sferragliare di un complicatissimo gioco di rotelline dentate interconnesse, di sensibilità troppo elevata, che l' irrilevante pagliuzza di turno manda regolarmente in tilt bloccando l' intero meccanismo. E ad aggiungere al danno la beffa sta l' osservazione -certo oggettivamente limitata, siamo intesi, date le possibilità consentite dalla mio personale angolo prospettico di visuale- di come, invece, quelle altrui funzionino più o meno regolarmente. Non ho mai scoperto il loro segreto, anche se ho provato l' azzardo di qualche ipotesi.

Il blocco del meccanismo, lo ammetto, costituisce sempre difetto di progettazione e costruzione.

Si deve allora -mi dico- studiare ancora il tutto, ispezionare, sezione per sezione, il disegno preparatorio, decidere anche -perché no- se, tra gli ineludibili difetti di fabbricazione, ve ne sia qualcuno che possa essere lasciato senza compromettere, di massima, il risultato del marchingegno.

Insomma, sopravvivere, o, come mi ha insegnato Albert, almeno resistere un altro po'.

Ma se considero alcuni dettagli io precipito a causa delle vertigini che mi reca la constatazione di quali e quanti possano essere i termini variabili della mia esistenza e di come, soprattutto, le variabili siano sempre negative.


Perché, vedete, io potrei, per esempio, avere ereditato in circostanze tristissime ed inesorabili, quindi obtorto collo, un gatto. Dunque: non l' ho scelto, ma il mio senso di pietà mi induce a prendermene cura perché provo amore per gli animali.
Soltanto che il gatto è affetto da una sua insospettata sindrome e per i primi due anni di coesistenza io passo la mia vita domestica a rincorrere i suoi spostamenti in casa e lavare pavimenti e tappeti e cose, nonché a stazionare in pianta quasi stabile presso l' ambulatorio di un veterinario incompetente che però mi subissa di parcelle da me regolarmente pagate (ed io non sono né ricca né mediamente abbiente), prima che io comprenda che non sa fare il suo lavoro.
Dite un po' voi se non c' è qui un affollamento di casi avversi: eredità non desiderata, malattia dell' ereditato, disonestà etico-professionale del medico, ansia da situazione economica delicata...
Che poi la storia si ripete. Arriva Neve, la cucciola, e riparte la giostra. Può davvero essere che tutto ritorna?
Ma no, è un caso. Il caso.

Ma ancora.
Un figlio.
Non programmato, ma naturalmente accettato e poi adorato, come fan quasi tutte le madri.
Un figlio che merita tutto, come tutti i figli.
Non le cose, gli oggetti, orpelli ed aggeggi vari, ma soprattutto  la dedizione, la cura, il tempo, la presenza.
I miei, naturalmente.
In tempi non sospetti tra il mio lavoro fuori casa, il trasporto del fagottino urlante su e giù in asilo nido, la corsa frenetica stritolata in orari e scadenze, la frustrazione depressa conseguente, ho scelto -in accordo pieno con l' altro genitore- le dimissioni.
Bene: questo è esercizio di arbitrio, libero (in qualche senso non assoluto).
Ma con l' adolescenza Edipo manifesta il bisogno di sbarazzarsi della madre e lo fa non come capita a tutti gli altri nessuno, ma con grande violenza ed aggressività, fino a costringerla ad andarsene.
E' la strana storia del lupo della steppa, condannato dalla sua stessa natura all' esilio?

Oh, non lo so. Credevo di non credere al destino...  E' sempre il caso.

E poi, ancora, altre storie. Milleuno. Troppe da raccontare, ho già annoiato.

E' così che non mi resta che un' escamotage: far finta, fortissimamente fingere, d' essere sana.


mercoledì 15 giugno 2011

L' eclisse

Sirio: "Suvvia, poche storie, non facciamola troppo lunga: lo sappiamo bene, no, che s' ha da morire, sarà mica una novità. Son già morti in miliardi, prima di noi. E allora? Il mondo non ha smesso un istante di continuare le sue insulse occupazioni, né se n' è manco avveduto. E ci mancherebbe soltanto che il grandioso respiro di matrigna Natura si turbasse per simili bazzecole.
Noi, nella roulette della vita, dobbiamo puntare sull' istante, se ci va di combinar qualcosa, se dobbiamo dire, se dobbiamo fare, anche perchè un imprevista virata di volo di libellula avrà la potenza necessaria a sconvolgere qualsiasi cosa che ritenessimo inossidabile e monolitica. L' istante, il presente è il solo punto vincente."

La di lei anima panica depressa: "Sono cresciuta sana e forte, così forte da trascinarmi appresso un fardello immenso di volti, parole, pensieri, memoria, tributi d' amore. Non ho gettato nulla, non ho dimenticato nessuno, ma ogni esperienza ed ogni persona hanno estromesso da me un po' di sogni, talvolta per farli propri senza usarmi neppure la cortesia di restituirli, od almeno riconoscerne la maternità. Loro sono voraci e sanno mentire, senz' avvedersene. E la menzogna è la sola cosa che mi disarmi, è il mio tallone d' Achille.
E mi spiace... mi spiace così tanto, ora che affogo nella tristezza, per il mare di notte, ed il cielo al crepuscolo; mi spiace per le vette vertiginose sferzate dal vento gelido, e per le dune del deserto; e per gli scogli, e le vegetazioni selvagge ed intricate; mi spiace perché ho scelto da me i miei cattivi maestri, le donne e gli uomini, ed ora non so più vibrare e confondermi e meravigliarmi alla loro vista, evocazione, immaginazione.
Fino a ieri sapevo vedere con l' acuto sguardo dell' aquila reale la bellezza della Vita, unitamente al suo orrore, ed entrambi gli aspetti erano necessari, ed io li amavo. Ma adesso... adesso ogni cosa mi fa male. Eppure, non è paura d' estinzione, no davvero: perché straziarsi nel pensiero di quando non saremo?  Ben lo disse l' epicureo antico: quando sei morto non puoi sapere d' esserlo, perché non sei più...
E' la vita che mi fa male. La vita e gli uomini, perché il mondo è davvero troppo ipocrita perché ci si possa sopravvivere e, quando riesce a non essere ipocrita -in uno sprazzo d' autenticità, sotto l' effetto di qualche suggestione inebriante-, beh, allora sa diventare scialbo e scipito."

Sirio: "Occupati dell' integrità delle tue, di scelte, e lascia stare i massimi sistemi, cialtrona di un' anima.
Chi ti ha convinta di vantare qualche credito verso chicchessia? Hai anche soltanto una vaghissima idea di quanto dolore vero soffochi il mondo? Sei cieca, pari a tutti coloro che giudichi con disprezzo. Sei superba, ed io non sarò mai abbastanza severa nel giudicarti.
Mi hai tediata, io più non ti sopporto, ed ora taci, meschina. Lascia che io guardi quest' eclisse di una luna stupefatta."

eclisse 15/6/2011 ad ore 23.28

martedì 14 giugno 2011

Bisbiglìo

Alle anime belle

Lo bisbiglio, così, senza preciso scopo, ma per un lieve/impetuoso bisogno di sfogo.
Qualche volta, per puro caso, per incidente di percorso, leggo in blog che non seguo cose davvero inqualificantemente brutte. Ma brutte parecchio, nella forma e più che mai nel contenuto. Brutte, volgari, sedicentemente eccentriche, scatologiche, come molta arte moderna post-pop.
Dio, che brutte. Mi fanno male. Ma, per evitarle in eterno, è stato un bene capitarci per caso.

Ho ancora il groppo di disgusto nella strozza. Ecco: il loro nefasto e virulento liquame m' ha fatto scrivere una frase decisamente brutta.

Segue solitamente, a quegli sconci, una sfilza considerevole di commenti pruriginosi, ammiccanti, rimpallati da risposte tronfiette, pretestuose, imbecilli,  come se la massa godesse di ciò che è laido.
Il laido piace, morbosamente.
Perché, perché, perché?
Ma cos' è brutto, e cos' è bello...



foto brax

lunedì 13 giugno 2011

Rischiare, a prescindere

Io, lo giuro sul mio onore, sono una persona naturalmente incline alla benevolenza. Non so da dove si origini 'sta sindrome, ma il fatto è che, di primo acchitto, se non mi costringe ad odiare qualche suo lapalissiano carattere ripugnante come la spocchiosità, l' aggressività e la volgarità -che si palesano senza tema di errore nei primi cinque minuti di osservazione-, amo l' Uomo, gli voglio proprio bene, mi riempie di  sentimenti di dolce tenerezza.

Mi colma di stupore, ogni volta che ci rifletto, sentir attribuito il precetto "Ama il tuo prossimo come te stesso" a Cristo, quando invece scopro essere questa la più naturale ed automatica delle umane inclinazioni laddove non intervengano tensioni di tipo -genericamente- culturale. Uno degli innumerevoli motivi per cui mi è sempre stato impossibile attribuire la presunzione di buonafede agli ecclesiastici ed alla maggioranza dei cattolici convinti praticanti è questa loro arroganza nell' attribuire virtù teologali a ciò che è semplice patrimonio della specie.

Noi propendiamo naturalmente sia verso ciò che ci somiglia, sia verso ciò che ci meraviglia e stupisce anche quando a noi contrario; ci attrae ciò che riconosciamo e pure, con medesima intensità, ciò che ci pare straordinario. Ma soprattutto, abbiamo bisogno d' uscire da noi stessi, per non sentirci intrappolati in una solitudine che, se pur rappresentasse meditazione sulla verità, se pur implicasse l' ottenimento di somma sapienza, ci lascerebbe comunque l' eterna nostalgia della felicità che sappiamo immaginare soltanto in relazione  agli altri.

E' per questo, io penso, che non esiste delusione più cocente di quella che può derivare dalla defezione di un amico.
Eppure, non esiste alcun rimedio.
L' eventuale determinazione alla prudenza, la cautela, la diffidenza, la titubanza dettata dal timore del rifiuto, hanno il duplice risultato di tutelare dal possibile dolore ed impoverire la vita dell' anima.

Perciò si deve sempre rischiare, a prescindere.

Io l' ho fatto con Adriana, Dario, Lorenzo, Renzo, Massimo, Roberta, ed altri ancora, per citare gli ultimi, ma ora non so più che facciano, che pensino, come vivano e se mi ricordino, eppure, tutti, hanno conosciuto ogni dettaglio delle mie vicende, anche le più personali e profonde, ed hanno con me talvolta mangiato, o pedalato, o girovagato per le calli veneziane, o camminato su sentieri di montagna, o conversato a lungo. La sera in cui mia madre, ancora giovane, morì improvvisamente, i primi quattro erano a cena nella mia casa, ove avevo cucinato per loro cinque portate di pesce. I momenti successivi alla tragedia li abbiamo vissuti insieme, nostro malgrado, nell' assurdità di una situazione impensabile, atroce e letteralmente ottundente. Abbiamo percorso insieme il tragitto in auto, 11 chilometri, per constatare la morte della persona più importante della mia vita.
Da quel momento non erano i miei amici, ma i miei angeli.
E mi sbagliavo: ero io, ed io soltanto ad amarli, ma non lo sapevo e, comunque, il mio amore bastava per tutti.
E' bastato il sedimento di poco tempo, l' avezzarsi a nuove personali assuefazioni, l' imbarazzo a sostenere qualche opinione diversa, un calo di disponibilità causato anche da gravosi impegni, il modificarsi delle prospettive di probabili reconditi fini che, in loro, erano l' autentico alibi dell' amicizia, forse il timore d' essere troppo coinvolti, perchè si atrofizzassero quelle celestiali ali.

Non c' è ingenuità più sciocca, né più ricorrente, di quella che ci fa supporre la sintonia con altri sé diversi dal nostro.
La delusione che può derivare dall' insufficienza morale, dall' aridità e superficialità dei nostri conspecifici non può essere loro attribuita come colpa, ma, semmai, constatata come un nostro clamoroso errore di valutazione, di cui cercare di fare ammenda. Con noi stessi, però.

Siccome io lo faccio puntualmente, non mi riesce proprio di guarire dalla sindrome.


domenica 12 giugno 2011

Catena di memoria

La piazza principale della città in cui vivo è dedicata ad Erminio Ferretto, capo partigiano trucidato dai nazifascisti nel febbraio del 1945. Pochi mesi dopo, la guerra finì. Non aveva ancora 30 anni.









Stamattina, nel cortile della scuola adibita a seggio, prima di entrare per dare le mie risposte ai quesiti referendari, sono incorsa nell' arrivo di un' ambulanza dei servizi sociali. Vi è scesa un' anziana e fragile signora in carrozzina, con un bel volto impreziosito dalle onorevoli rughe degli ultraottantenni. Il figlio, nel frattempo, l'ha raggiunta in bicicletta recandole anche il bastone. L' ha fatta alzare ed accompagnata al mio stesso seggio per esercitare la sua scelta.
Aveva qualche difficoltà a ripiegare correttamente le schede compilate: dall' esterno della cabina il presidente le ha dimostrato come fare. "La pieghi così, come si fa per una camicia, signora", le ha detto sorridendo.
La vecchina è la cognata di Erminio Ferretto.

La memoria è tesoro, ed è anche la chiave del futuro. Getta semi invisibili che germineranno in eterno.
Io vorrei tanto che i giovani lo sapessero, lo capissero a fondo, anziché continuare ad accusare le generazioni precedenti d' aver loro devastato la vita.
Ed i valori -certi valori- non sono il nulla.

venerdì 10 giugno 2011

Progressi mediocri

"Si suol dire che lo spirito umano deve assaissimo, anzi soprattutto, ai geni straordinari e discopritori che s' innalzano di tanto in tanto. Io credo ch' egli debba loro assai poco, e che i progressi dello spirito umano siano opera principalmente degli ingegni mediocri. Uno spirito raro, ricevuti che ha da' suoi contemporanei i lumi propri dell' età sua, si spinge innanzi e fa dieci passi nella carriera. Il mondo ride, lo perseguita a un bisogno, e lo scomunica, né si muove dal suo posto, o vogliamo dire, non accelera la sua marcia. Intanto gli spiriti mediocri, parte aiutati dalle scoperte di quel grande, ma più di tutto pel naturale andamento delle cose, e per forza delle proprie meditazioni, fanno un mezzo passo. Altri ripetono le verità da loro insegnate, siccome poco discordi dalle già ricevute, e facilmente ammissibili. Il mondo sì per questa ragione, sì per forza dell' esempio di molti, li segue. I loro successori fanno un  altro mezzo passo con eguale fortuna. Così di mano in mano, finché si arriva a compiere il decimo passo, e a trovarsi nel punto dove quel grande spirito si trovò tanto tempo prima.
[...]
Così lo spirito umano si avanza senza mai credere di mutare opinione. Non è se non  paragonando remoti e divisi secoli fra loro, che qualche pensatore si accorge come oggi il mondo creda in mille cose il contrario di ciò che credette."
(Giacomo Leopardi, Zibaldone, Tomo primo)



Quando si dice il pericolo dell' assuefazione...
Dev' essere anche per questo che mi sento così gravemente stressata: non voglio assuefarmi a niente. E, a ben pensarci, neppure a nessuno.
Le persone sono troppo, troppo importanti, per me, per non operare le dovute selezioni.
Ciò comporta un perenne stato di veglia -un po' crudele, invero-, una sorta di stakanovistica guardia dai merli della fortezza a difesa del deserto dei tartari.
So che -in generale- il  rilassamento se da un lato comporterebbe minor fatica e maggior piacere, dall' altro implicherebbe un calo di attenzione, e a dismettere l' attenzione si rischia di cadere tra i flutti della fiumana, senza neppure sapere come sia accaduto.
Ammetto di non essere sicura che sia il modo giusto di porsi, che forse sia ingeneroso nei miei stessi confronti (ma confesso di amarmi poco, ultimamente)  e rappresenti una fatica; ma non ci posso far nulla: è un' automatismo, non un atto di volontà.

Avrei trovato auspicabile, in più, un universo che avesse a noia l' abitudine e la mediocrità, un mondo in cui le sfumature o le zone d' ombra incuriosissero più della luce abbacinante e dei lustrini: spesso le verità girano imbacuccate ed in incognito. Magari ci saremmo risparmiati anche anni di malgoverno.




giovedì 9 giugno 2011

Ancora psico-patologia di una blogger

Dare per scontato che qualcuno ti capisca è sempre un peccato di ingenuità, un' illusione puerile, retaggio infantile: nessuno può capire nessuno.
E poi, perché dovrebbe, nella logica universale utilitaristica, se non hai intenzione o possibilità di dargli niente di tangibile, né cose, né fatti, ma hai soltanto una voce, una valanga di sterminato inutile amore per l' indegna umanità, ed un po' di empatia da dispensare, perché ogni altra energia è spesa nel tentativo di tenersi viva?

Vale sempre, vale ovunque, anche qui.
Notoriamente si considera la Rete sempre più come una protesi -per molti irrinunciabile-, una sorta di propaggine dell' io che s' illude così di acquisire pervasività e significato, oltre i limiti dei sensi.

E' un' estensione, più precisamente - si dice-, del sistema nervoso, così come ad esempio la televisione lo era di quello visivo; ma un sistema nervoso che si accontenti di soli "impulsi" unidirezionali non funziona poi un granché a dovere: un po' insufficiente e fragile lo rimane.
Grazie alla bulimia ideale tutta umana, pare che ci alletti di più l' idea di propagare etereamente qualcosa di noi, ficcando il naso dappertutto per un' altra sniffatina -ma leggera ed  estemporanea- di vita, piuttosto che concentrarci sul vivere sul serio.
In generale, gli impulsi dovrebbero costituire il propellente ad una qualche determinato fine -un' azione, una scelta- , così l' esercitare intenti filantropici in un blog -dire e smentire, sciorinar parole, pensieri, sulla cui sincerità non esiste modo di ottenere garanzia alcuna, alternare luci ed ombre, impelagarsi in ermetismi, essere presenti ma con la facoltà unilaterale di sottrarsi agli eventuali lettori in piena legittimità, non è che un eterno rimescolar di carte, senza che ancora si sia deciso il gioco, a meno che non si appartenga alla "fazione" di coloro che ritengono, in buonafede, che Internet possa davvero modificare le coscienze (ed io non lo credo), oppure di coloro che lo utilizzano per fini propagandistici o pubblicitari personali.

I blogger-romantici, invece, sono innanzitutto dei vanitosi, taluni emotivi, talaltri siderali, altri ancora velleitari; quasi tutti affetti da narcisismo. I peggiori di loro sono scostanti, inaffidabili, più frequentemente maleducati, massimamente permalosi, e, di conseguenza, presuntuosi.
Perché nella rete le regole civili di cortesia si bypassano, in genere, come se fossero retaggi di un umanesimo ammuffito e stantìo, inutilmente sentimentalistico: vecchiume.

Ah, io odio la villania e detesto i cafoni, soprattutto i cafoni-moderati, ignoranti la loro ignoranza, odio i quaqquaraqquà, i rivoluzionari in poltrona, quelli che pensano di gettar fumo negli occhi, i poetastri, i filosofi bugiardi, i doppiogiochisti.

Infatti,  non so fare la blogger, ed il mio digitare è il surrogato maldestro di un bisogno 
troppo vasto ed antico al cui soddisfacimento ho ormai definitivamente rinunciato dato che i miei spettri non mi danno tregua, che non riesco a spersonalizzarmi, a farmi pixel,  né a modificare il mio consueto modo di rapportarmi con l' esterno, che rimane e vuole rimanere -ed altro non può essere, per me-, che dialettico. Il blogger deve, almeno, collocarsi in qualche posto: essere pro o contro di qualcosa o qualcuno, avere questa o quella caratteristica, offrire una precisa chiave di lettura della sua personalità. Ecco perché io non ne sono capace del tutto: soffro di idiosincrasia alle definizioni, ho l' indole dello straniero e del ribelle, per eccesso d' amore del vero, il quale, a sua volta, non è passibile di definizione certa quasi mai.
La mia follia è talmente grande che talvolta mi convinco d' essere in grado di intuire con sufficiente precisione la natura e le caratteristiche dell' altro sistema nervoso -quello con cui il mio, di tanto in tanto, quando capita, interloquisce- ed invece, puntualmente, mi sbaglio, ne provo disgusto e ne soffro.
Si vede che costituisco un grottesco esempio di ideal-razionalismo un po' schizofrenico.

***


Questo preambolo, in realtà, m' è uscito così risentito e, temo, sgradevole, perché da giorni sto tentando di chiarire a me stessa le ragioni per cui sia finita miseramente nel nulla ed in circostanze non sospette, un' amicizia trentennale con una mia compagna di studi, di tempo libero, di similitudini.
Il nocciolo della questione potrebbe essere proprio negli intenti.
In questo senso, posso raccordare il mio cruccio personale -gli amici che tradiscono- con quanto scritto sulla mia "psico-patologia da blogger".
Alcuni umani muovono automaticamente verso altri con l' intento dell' incontro e dello scambio soltanto ideale -e questo li fa semplicemente stare bene, o meglio-, altri perseguono scopi precisi che li riconducono inevitabilmente a sé stessi.
La questione non è di valori, ma, di nuovo, antropologica.
Vorrei solo capire quale razza sia a maggior rischio di estinzione. Anche se, a ben pensarci, lo so.











martedì 7 giugno 2011

Veglia

"Intenerita": non è assolutamente privo di senso sentirsi così? A sera, quando il metabolismo  rallenta, gli stimoli scemano, la promessa degli imminenti spazi onirici seduce, i pensieri profusi in ordine sparso rientrano, pur senza alcun ermo colle così caro da fornirne l' alibi, ecco che mi liquefo nella tenerezza.

Intenerita dalla mia stessa mestizia, dalle stilettate crudeli che mi infligge la rassegna dei miei dolori antichi -al crepuscolo sempre a rapporto-, quando tornano i miei morti:  il volto di papà ed il suo sudario, dopo diciott' anni in modo vivido come allora, seguito da quello di mamma, nella sua maschera di permanente tristezza, decisa a non elaborare affatto il lutto, ma renderlo faro per il suo personale commiato dal mondo, e gli amici perduti, gli amori finiti, il mio povero Dandy, le promesse di futuri eventi mai materializzati, le pagine di libri che hanno assorbito una lacrima: Lucignolo-asinello che esala l' ultimo respiro, Ivan Il'ič che prima della fine compiange sé stesso, quel povero cristo di un cane macilento e bagnato, che si allontanerà per sempre, preso a sassate dal rancore disperato di Billy...

"Dalle montagne soffiava un vento freddo, che fendeva le pendici occidentali del continente, dove la neve estiva sovrastava la linea degli alberi, e attraversava le foreste di abeti e pioppi e soffiava sulla pianura desertica più a valle. Aveva smesso di piovere quella notte; Billy arrivò sulla strada e chiamò il cane. Chiamò più volte, fermo in quell' oscurità inspiegabile. Non si sentivano rumori, tranne quello del vento. Dopo un po' si sedette sulla strada. Si levò il cappello e lo posò sull' asfalto davanti a sé, chinò la testa, si strinse il viso tra le mani e pianse. Rimase lì a lungo, poi il cielo a est incominciò a farsi grigio; poi si levò il sole vero, quello fatto da Dio, ancora una volta, per tutti, senza distinzioni"
(Cormac McCarthy, Oltre il confine)

Perché mi succede così spesso di provare  una simile struggente malinconia misteriosamente composta di gioia pura, che pare fatta della stessa sostanza del semplice respiro -se armonizzato alle corde del mondo-, e di dolore sempiterno, pur dolcissimo, nell' infinita complessa ambivalenza di questa parabola d' umanità, talvolta così straziante?
Soffriamo dunque siamo. Ma che cosa, siamo? Che cosa?

Emozioni. Quando si ride, quando si piange, quando si (crede/pensa di) ama(re).

"Le emozioni sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicofisiologiche, a stimoli interni o esterni, naturali o appresi.
In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell'individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza, reazione che non utilizzi cioè processi cognitivi ed elaborazione cosciente.
Le emozioni rivestono anche una funzione relazionale (comunicazione agli altri delle proprie reazioni psicofisiologiche) e una funzione autoregolativa (comprensione delle proprie modificazioni psicofisiologiche). Si differenziano quindi dai sentimenti e dagli stati d'animo." (Wikipedia)

Odio pensare questo. Odio accettare l' eventualità d' essere una creatura emozionale.
Non è così? Non è riduttivo ed odioso, sempre, per chiunque, ritenersi una cosa simile?

La discriminante sta nel perdurare dell' emozione nel tempo, attraverso il filtro della coscienza di sé.
Ecco che una lacrima si fa dolore, un' attrazione amore o passione, un sorriso felicità, un' intesa amicizia. Ogni moto interiore (nervoso e mentale), per nobilitarsi ed emendarsi dallo status meramente fisiologico, deve subire un qualche processo evolutivo oscuro che molto ricorda il soffio di Dio.

Ora, io, lontana da qualsiasi Dio per oggettiva impossibilità a credere, mi arrovello e mi lambicco per sapere che cosa sia: una peplessa viandante in eterno stato di veglia.

"E' il riposo illuminato, né febbre, né languore, sul letto o sul prato.
L' amico né ardente né debole. L' amico.
L' amata né tormentosa né tormentata. L' amata.
L' aria e il mondo niente affatto cercati. La vita.
- Allora era questo?
- E' il sogno più fresco."
(Arthur Rimbaud)



domenica 5 giugno 2011

La cavallina dall' ancestrale mantello baio

Nella vasta prateria dell' imperante nichilismo, scorazza una cavallina dall' ancestrale mantello baio, un poco azzoppata e dal nitrito sempre più afono, ma  con un' incessante prurito agli zoccoli che la costringe ad imbizzarrirsi e a scartare a destra e a manca, come fosse indemoniata, o eternamente puledrina, curiosa di scoprire quale orizzonte si celi dietro al successivo ostacolo di duna erbosa e piccolo cratere di terreno accidentato.
Mai recalcitrante, ma incapace di sereno trotterellare, schiuma e soffre a causa dei battiti di un cuore accelerato, che la condurranno, alfine, a ben più soffici pascoli celesti.

Questo mio, che racconterò, non è nichilismo cattivo ed avvelenato, niente affatto; non nel senso che vi verrebbe attribuito da certi vecchi tromboni di mia conoscenza, convinti di possedere "la giusta misura delle cose", l' equilibrio dabbene e razionale, la padronanza del senso del divenire umano, oppure, in opposti casi, anche da certi sciocchi individui vanesi, piuttosto frivoli e dall' intelletto semplificato.
Io sono stufa di sorprendere il loro sguardo perplesso ed accigliato posarsi sul mio volto in cerca della banalizzazione di un atto di scusa. Io non ho nulla di cui chiedere perdono, sebbene la mia vita non rientri nei loro cliché.

Tutti costoro hanno in comune alcuni elementi fissi:
1- non conoscono il peso delle privazioni materiali, hanno sostanze economiche sufficienti od abbondanti, certe famigliole ufficiali in regola con i range pubblici di normalità, le pance piene, passato e futuro intatti e non pesantemente erosi da circostanze assurde;
2- l' assenza di precarietà materiale o di sforzi per la conquista del livello minimo di decorosa sopravvivenza, consente loro anche una sostanziale saldezza psicologica ed emotiva, che se da un lato inficia la fantasia e l' immaginazione, dall' altro li rende sordi e ciechi -o disattenti- alle altrui situazioni oggettive devianti e difficili;
3- ad ogni bivio esistenziale, nei punti cruciali del loro percorso, le loro decisioni vanno sempre e decisamente in direzione materialistica ed utilitaristica, nonostante le loro teorizzazioni precedenti, che parevano evocare una predominanza, nella loro indole, di un elemento idealistico o romantico.

Ebbene: io non sono come loro, sono il loro opposto.
Convinta che, se pur ignorandone lo scopo, alternativa al vivere "sensatamente" sia il provare a vivere almeno in rispetto alla propria natura autentica. Che poi altro non è che la propria verità.
Non mi è mai riuscito di permanere per più del necessario (ed il necessario talvolta è costituito dal dovere di qualche responsabilità) in situazioni contraddittorie od ambigue, od anche solo deprimenti, per mera consuetudine sociale.

Come tutti, io vorrei essere un po' felice, ma quel che mi pare più vicino al concetto di felicità rimane la conquista dell' armonia tra pensiero ed azione, tra malinconia e gioia, tra dare e ricevere, tra dire ed ascoltare: roba mai riscontrata nei miei incontri.
La "mia" felicità non è piacere ma equilibrio. Seppur, nel contempo, io sappia che pure equilibrio sarà il Godot che attenderò fino alla fine del mio tempo. Non mi pare irrilevante il tentativo di non attendere con le mani in mano.

La felicità, quest' eterna fuggiasca  (oltre che riconoscerla come in assoluto il più ambito degli obiettivi umani universali), me la sono sempre immaginata puramente immateriale. La felicità, dunque, per me, è l' amalgama di un concetto, di un' intuizione, di una speranza ed ha natura aerea, priva di peso: è un' idea che nutre.

Coloro che mi accusano di nichilismo (mi auguro anche che pensino all' accezione decadente del termine, perché, come ho già scritto in precedenza, considero il mio onesto) si basano sulle azioni visibili che hanno caratterizzato le mie scelte di vita ( come il mio desiderio di non essere niente e nessuno in particolare in una società che non mi piace e la rinuncia ad importanti rapporti sentimentali o l' abbandono di situazioni consolidate), applicando così al loro giudizio un criterio di oggettività universale che invece non mi appartiene affatto.

Chi lascia una situazione in cui godeva di una relativa tranquillità economica, supporto psico-fisico, integrazione sociale ma che anche, nel contempo, rappresentava la negazione di un' ansia sentimentale e intellettuale -così condannate a mortificazione e frustrazione-, per ritrovarsi sola ed in difficoltà, è, ai loro occhi, una perfetta pazza e compiangeranno il suo ridicolo romanticismo, ma cionondimeno, in caso di interrogazione sull' argomento, declameranno che l' amore e l' idealismo sono al primo posto nella loro classifica dei valori.
La verità sta nelle loro azioni: i loro matrimoni sono, in effetti, ciò che la società borghese-capitalistica stabilisce che siano, vale a dire contratti a contenuto non prevalentemente ma soprattutto patrimoniale, e, per quel che resta, istituti privati ed interconnettivi di mutuo soccorso tra i coniugi e gli affini.

Chiedo: chi, tra noi, è il becero nichilista? Io che frantumo nei fatti i loro schemi di valori mercantili mascherati da velleità sentimentali o loro che definiscono valore un accordo legale?



sabato 4 giugno 2011

Imperfezione

"Io desidero, io supplico, che la mia imperfezione si manifesti ai miei occhi interamente, totalmente, per quanto ne è capace lo sguardo del pensiero umano. Non perché essa guarisca, ma perché, anche se non dovesse guarire, io sia nella verità." (S. Weil, Quaderno VII): mai contemplato in analogo scandalo di nudità tutta la mia imperfezione.

Nei momenti più tristi guardo la mia vita e ne ispeziono le assenze: rispetto a coloro che osservo mancano l' humus, il sostrato, le fondamenta, i pretesti e la propulsione. Manca il loro Dio, ed, ancor più gravemente, manca l' Uomo: io stessa mi stupisco della straordinarietà del mio respiro.

Il prezzo della Verità assomiglia alla morte, ma chi appella questo dolore nichilismo, non sa nulla dell' anima umana.