giovedì 30 dicembre 2010

Amarcord

Scrivo qui, in queste stanze, quello che non si può più dire senza ricevere uno sguardo sarcastico ed un risolino seguito da spalluccia; scrivo quello che non ho mai abbandonato nella memoria e che è entrato nelle arterie per scorrervi fino alla fine del mio tempo.
La vita di ciascuno di noi è un tentativo di conciliazione eterna tra ragione, sogno, fortuna; ma  è nel sogno che più volentieri si indugia ed è nel più inconsistente dei sogni che si attinge la vera forza.

Sorrido, pensando a come, negli anni 70, il mio attempato, distinto, civile, tutt’ altro che rivoluzionario e colto professore di letteratura si commuovesse ed empatizzasse a tal punto con quanto scrivevo nei miei ingenui temi –laddove vertevano sulla condizione giovanile, intrisi di una travolgente laica religiosità -, da valutarli con il massimo dei voti e rendermi inavvertitamente odiosa ai miei compagni di studio, che in lui rilevavano soltanto il buffo desueto aspetto esterno. Un uomo in gamba, il professore, perché non è da tutti riuscire a superare le convinzioni intellettuali legnose e rigide su cui si è uniformata l’ intera propria esistenza ed apprezzare, magari, visioni diametralmente opposte e contrastanti: io spero, se non altro, di avergli regalato un frammento di sogno della mia generazione, e che quel frammento gli sia rimasto nel cuore a lungo, come una rifrazione di luce. Quanto all’eredità che lui mi ha lasciato, conservo nello scrigno della memoria il ricordo di un incontro casuale, avvenuto anni dopo la conclusione dei miei studi, sui gradini di un ponte veneziano: “La cito ancora ai miei alunni”, mi disse, ed io lo presi come un atto d’ amore, indelebile e dolcissimo.

Penso anche a come sarebbe bello se i figli d’ oggi ci regalassero i loro, almeno come omaggio alle nostre illusioni sbriciolate e deluse, ma dalle ceneri delle vecchie generazioni visionarie non è risorto più nulla.
"La mia generazione ha perso", d' accordo, ma non esattamente per sua esclusiva responsabilità. Diciamo che, allora, ha vinto Golia, ma la partita della storia non è mai definitivamente risolta ed ogni cosa ritorna.

Perciò, sono una reduce, non intollerantemente infelice e non completamente distrutta, che sa perfettamente di non poter salvare nient’ altro che la convinzione, almeno, di non aver scherzato, né stupidamente gigionato: la riprova sta nella vita vissuta più tardi e nella capacità di resistenza. Anzi: di resilienza. Ogni tanto qualcosa riesce a produrre ancora esplosioni di gioia.

Vedo che le fila dei saltimbanchi sono sempre più nutrite, che politicanti da strapazzo saltano come grilli da una barricata di carta all' altra e non se ne vergognano neppure un po’: santoddio –mi dico-, ma è ora che mentite a voi stessi, oppure mentivate, invece, allora, e tutti noi, grulli, quasi quasi vi abbiamo giudicati attendibili? Rimane un arcano, uno degli innumerevoli della nostra epoca di mediocrità assurte allo scranno del comando. Ma eravamo giovani.

***
Correva l’ anno 1956 quando fu pubblicato dalla casa editrice americana City Lights Books di Lawrence Ferlinghetti il libro di poesie “Howl and others poems” di Allen Ginsberg. La prima parte della celebre poesia “L’ Urlo” echeggiava nella mente di una vera moltitudine di giovani (me compresa, molto più tardi, quando la scia hyppie arrivò in Italia), che in essa riconobbero una nuova bibbia ed una nuova prospettiva del mondo, in aperto contrasto con la società americana guerrafondaia, bigotta, asfitticamente piccolo-borghese e falsamente moralista, asservente però in primis il dio denaro; società e modello di democrazia che ancor oggi pretende di esportare in tutto il mondo.

Era la voce di una Speranza, invero piuttosto rabbiosa, e la ricerca di un’ alternativa di vita, in un mondo in cui fosse possibile dare aria ed ali anche ai sogni, alla creatività, alla pace, all’ uguaglianza, alla gioia; un mondo che vivesse anche di poesia e rispettasse la libertà. Suonava, all’ incirca, così:



Urlo di Allen Ginsberg

“a Carl Solomon (amico psicopatico conosciuto in un ospedale psichiatrico. N.d.Sirio)

Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate, nude, isteriche,
trascinarsi per le strade negre all'alba in cerca di una dose rabbiosa,
hippie dalla testa d'angelo bruciare per l'antica paradisiaca connessione alla dinamo celeste nel macchinario della notte,
che la povertà e gli stracci e gli sguardi spenti e lo sballo innalzarono fumando nella sovrannaturale oscurità di appartamenti ad acqua fredda galleggiando oltre le vette di città contemplando il jazz,
che mostrarono i loro cervelli spogli al Paradiso sotto l'El e videro angeli Maomettani barcollare sui tetti dei condomini illuminati,
che attraversarono università con occhi freddi raggianti allucinando l'Arkansas e la tragedia della luce di Blake in mezzo ai dottori della guerra,

…”


Versi deliranti, molto più deliranti di quelli di Whitman, nel suo “Foglie d’ erba”, ma in un certo senso giustificati da un’ esplosione di indignata incapacità a tollerare oltre. Il raccapriccio della devastazione della bomba atomica e la ferocia del conflitto in Vietnam, offrivano al mondo il lurido spettacolo di una guerra orribile, dalle connotazioni apocalittiche, dove l’ ultima goccia di umanità era evaporata, una generazione di giovani sacrificata, per lasciare il posto al demoniaco deserto della morte e dell’ immonda bestialità, in nome della supremazia e del potere.

Versi profetici, dall’ intento “taumaturgico”, contro l’ orrore dell’ omologazione delle coscienze.

Il movimento poetico, artistico, letterario che, alla fine degli anni cinquanta, diede vita alla “Beat Generation”, reclutò, tra le sue fila, scrittori, poeti, musicisti, artisti. Personaggi eclettici, nuovi, dai messaggi vagamente cherubinici, intrisi anche di purezza e dolcezza: voci che volevano materializzare dei sogni e darli a chi non aspettava che di crederci. Jack Kerouac, Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Neal Cassady, e molti altri …
Jack Kerouac conia il termine Beat.
Beat, come “beatitudine” (dalle filosofie Zen), ma anche come “battuto” (sconfitto nella società), e come “battito”, e come “ribellione”, e come “ritmo” (Il Jazz di “The Bird”, Charlie Parker).



E’ una nuova forma espressiva ed esistenziale –o tenta di diventarlo- che non ha alcuna precisa connotazione politica o religiosa, ma risente, nel contempo, di una molteplicità di influssi culturali e sociali. Quella generazione tentò di rompere definitivamente gli schemi esistenti e di darsi regole totalmente nuove, alla ricerca di un modo libero d’ essere. Una parte di essa si bruciò, a causa dell’ abuso d’ alcol e di droghe, considerati espedienti per riunirsi al “tutto”.


Lasciarono una letteratura nutrita ed inedita, testimone di un’ utopia grandiosa.

Fu Fernanda Pivano che ce li fece conoscere, attraverso la traduzione delle loro opere. La sua casa era il riferimento dell’ onda-beat, e fu lei a sollecitare in Italia la creazione della prima rivista “underground”.

Nacquero anche da noi complessi e testi di canzoni che si rifacevano al “beat”: l’ influsso d’ oltre-oceano è stato travolgente, da un punto di vista musicale. Qualcuno ricorda un certo Donovan? Donovan: il poeta della non-violenza, in possesso di una voce particolarissima, dalle modulazioni insolite. I complessi: Equipe 84, i Corvi, i Camaleonti, i Dik-Dik. .. I futuri “big”: Patty Pravo, Caterina Caselli…

***


2 commenti:

  1. i versi deliranti di Ginsberg sono un pugno nello stomaco...una luce ulteriore di Blake!
    immensi!
    mi piace questa tua rivelazione sulla scuola, sono sfumature che nell'adolescenza segnano un colore...i sentimenti hanno tinte forti :-)
    credo che certi miti della leteratura non torneranno più, perchè la loro voce era segnata dal duro contesto della storia di quel preciso periodo.

    però, se penso al Vico, allora tutto può tornare...perchè è tutto un cerchio, in fondo, questa nostra vita.

    quello che è certo è che le emozioni tornano :-)
    un bacio
    e buon anno, mia cara Morena
    carla

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  2. Devo dire, mia cara Carla, che a rileggere le poesie di Gregory Corso, Jack Kerouac, Ginsberg, e degli altri beat, mi si chiude lo stomaco. Mi si serra perché sono brutte, orribili, un po' nefande. Raschiano e grattano la mia sensibilità di femmina e la mia idea di eleganza spirituale, il mio senso di un' ascetico pudore intellettuale, la mia dimensione del sogno.
    Corso, in particolare, che amava appassionatamente Shelley e Keats, tanto da esigere d' essere sepolto vicino alle loro spoglie, la poesia la violentava, letteralmente.
    Ciononostante, essi furono, a modo loro, delle anime belle, che s' erano caricate del peso d' operare una rivoluzione culturale profonda, non solo letteraria e lirica.
    Io amo ed ammiro il coraggio, sopra ogni cosa.
    Buon inizio, mia gentile amica.
    Morena

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